C’erano manifesti anarchici che Zito Luvumbo aveva letto, attaccati sui muri dei quartieri periferici, manifesti che incitavano alla rivolta e alla fine dello sfruttamento e di ogni guerra. Zito Luvumbo si guardava le mani e a volte erano del colore dell’ebano e si ricordava della sua razza e di quanto misteriosa fosse la propria natura e del suo mutevole aspetto e anche dei suoi simili che lavoravano per ore, come schiavi, in immensi campi sotto al sole, a raccogliere verdura e ortaggi senza che ci fosse nessuno a proteggerli o a spiegargli i propri diritti o a inventare storie nelle quali l’umanità prendesse forme diverse da quelle dell’abuso e della violenza.
Erano crollate ali di enormi palazzi e ponti sopra la città e l’estate continuava torrida e implacabile e Zito Luvumbo proseguiva con le sue passeggiate, a piedi o in bicicletta, le sue serate sulla terrazza ad ascoltare il mare e le stelle, prendeva appunti su un quaderno, si addormentava in silenzio, respirava e sognava.
E poi il ridestarsi di un ricordo e le sue immagini e una vecchia inquietudine che lo spingeva a muoversi di nuovo e Zito Luvumbo correggeva i testi che qualcuno gli mandava e sostituiva vocaboli e nomi e così la narrazione prendeva svolte inaspettate e una volta che il grande calore fosse passato anche le direzioni da prendere sarebbero diventate più nitide, giusto per un attimo, prima di sfocare nell’amniotica quiete di una decisione, dello spazio al suo interno, grandi vetrate e aria condizionata e luce calma e la vaga sensazione di essere come in un acquario, ad osservare il paesaggio all’esterno, quell’isola, il suo profilo lontano.
Lo scrittore e il suo vecchio amico parlavano, discutendo se rimettersi in mare su una barca o meno. Poi si erano separati, si erano allontanati, perché lasciarsi giustificava la propria solitudine. Lo scrittore si insinuava nella psiche del suo passato, lo osservava e sapeva che quell’insieme di racconti andava distrutto, ci sarebbe stata un’esplosione, al largo, il battello sarebbe andato in fiamme e non ci sarebbero stati soccorsi e superstiti.
Lo scrittore tendeva l’orecchio nell’attesa che qualcuno chiamasse il suo nome ben sapendo che erano in pochi, ormai, a ricordarselo.