lunedì 24 febbraio 2025

ZetaElle #24

 La città in agosto: vuota, silenziosa, sospesa. Quasi un miracolo, pensava lo scrittore, mentre passeggiava per il parco vicino alla casa dove viveva. Un attico che d’estate si infuocava, togliendogli ogni energia, schiacciandolo sul letto, facendo sciogliere i suoi pensieri in liquide fantasie. Accendeva un vecchio ventilatore, giusto nelle ore più calde, poi si sistemava sulla terrazza, il tardo pomeriggio, almeno lì un po’ d’aria tirava. Passava le giornate leggendo o mettendosi a scrivere, la mattina presto o al tramonto. Questa amniotica esistenza gli ricordava l’estate che aveva passato a Orgiva, qualche anno prima, nell’appartamento di Sara, rileggendo romanzi che aveva scritto e che nessuno avrebbe mai pubblicato, aspettando e nascondendosi, in sintesi il suo ideale di vita.

Le notizie delle guerre, degli omicidi estivi, del cambiamento climatico, queste notti tropicali che avrebbe avuto più senso passare in qualche giungla peruviana, in un villaggio, assumendo ayahuasca all’interno di cerimonie sciamaniche e concentrandosi poi sullo studio delle civiltà precolombiane, queste notti di un cielo violaceo e ricordi di fuochi e smarrimento nell’oblio che l’etere del subconscio creava, questi giorni dedicati all’ozio, al tempo per sognare in uno stato di semi incoscienza, arrivavano i ricordi, come sempre, quelli dell’infanzia, dell’adolescenza, di una casa in campagna ormai perduta nel tempo e per questo ancora più preziosa e suggestiva.

Qualcuno immaginava complotti planetari, come se ci fosse una narrazione segreta e invisibile che ci coinvolgesse tutti quanti, a volte composta da misteriosi fili che collegavano segmenti di eventi segreti, altre con il maniacale lavoro sui dettagli, affinché le storie fossero credibili, in molti ripetevano versioni differenti, fino a quando si strutturasse una trama plausibile, affidabile, da esibire in parole e foto attraverso i più svariati mezzi di comunicazione, il rincoglionimento globale continuava a pieno ritmo, lo scrittore pensava di nuovo a luoghi isolati nei quali smarrirsi dentro se stesso e lasciare alla propria fantasia il compito di pensare al resto.

Tra pochi giorni la città avrebbe cominciato di nuovo a muoversi: frenetica e paranoica. Sciami di persone verso la scuola o il lavoro. I soliti percorsi, le stesse direzioni di sempre. Lo scrittore apprezzava la quiete della stasi. Lo scrittore rimaneva ore a guardare le nuvole passare. Le loro forme, la loro sinuosa e mutevole bellezza. Altre identità verrano a cercarti e tu sarai loro e loro saranno te. E un improbabile intreccio nascerà da tutto quello che rimarrà al di fuori delle tue azioni.


lunedì 17 febbraio 2025

ZetaElle #23

La città era ancora calda e vuota e potevo camminare per i parchi senza che ci fosse nessuno intorno e riconoscevo gli alberi, la loro presenza, la voce delle foglie che si muovevano nell’aria - Camminavo, la testa senza pensieri, poi mi sedevo su una panchina a guardare la luce, il cielo, le ombre, la quiete dorata del mondo in un solitario pomeriggio estivo - Le pause, i momenti in cui il lavoro era scomparso di nuovo e potevo rimanere libero di sognare, leggere, ricordare, il tempo che si sdraiava insieme a me sul divano, curvandosi fino a diventare liquido e amniotico, quasi inesistente - Cambiavano i colori, le emozioni della memoria, il lento approssimarsi della sera e c’era da chiedersi perché fossi tornato qui e quanto sarebbe durata questa ennesima farsa, perché non avessi scelto di interpretare un nuovo personaggio e mi fossi calato in una vecchia parte, migliorata di certo, ma sempre ripetuta e poi gli avessi dato spazio e vita, forse solo per sentirmi sicuro al suo interno, forse per non dover cedere ai rischi e alle incognite di una costante improvvisazione alcolica, anche se sentivo di intensificare le sfumature interiori di ogni performance che mettevo in scena e così questa decisione era risultata la migliore fra quelle a disposizione, senza trasformazioni lisergiche e fughe cognitive, continuavo, comunque, a cercare piccole parentesi di anarchia, grottesche e bizzarre situazioni in cui ciò che mi era richiesto di fare e per cui venivo pagato finiva e così tornavo a vagare, ad essere l’altro, l’ombra sui muri e sulle strade, quello che con un sorriso avrebbe rapidamente abbandonato tutto, solo per rimanersene in silenzio, a passeggiare in un bosco.

Tra una settimana o poco più la gente sarebbe tornata dalle ferie e lo scrittore avrebbe cominciato a riprendere le sue oscene attività solipsistiche e avrebbe cercato tabacco e hashish e invocato spacciatori invisibili, per aprire poi gli occhi di notte, la luna alta e tonda nel cielo scuro, senza idee per le sue storie, senza personaggi, al culmine della sua follia, nell’attesa di un equilibrio, di una illusoria panacea che durava quanto un ciclo lunare, quando le forze di creazione e distruzione si fossero annullate a vicenda e lui sarebbe tornato a distendersi sul letto, a respirare con gli occhi chiusi.

Nei sogni assumevo volti diversi e sostanze psichedeliche misteriose e vedevo le mie sembianze attraversare lo specchio e sciogliersi oltre di esso, per poi uscire e smarrirmi fra queste strade che il sole inchioda a destini di sporcizia e catrame.


sabato 1 febbraio 2025

ZetaElle #22

 Arrivavano ancora riviste di design e architettura ad uno dei falsi indirizzi che lo scrittore aveva lasciato, ogni tanto qualcuno andava in quegli appartamenti e ci viveva, amici o amiche dello scrittore, a volte era lui stesso, travestito da vagabondo, a passare alcuni giorni fra quattro mura confortevoli, per poi perdersi ancora, rimettersi in viaggio, fuggire o svanire. 

Lo scrittore aveva deciso di passare l’estate fra le dune dalle parti di Torvajanica, si era portato dietro una piccola tenda e lo stretto necessario per sopravvivere alcune settimane. C’erano altri ragazzi intorno a lui che avevano avuto la sua stessa idea, solo che loro lo facevano per necessità. Per lo scrittore, invece, era solo un modo per inventarsi e inscenare un’altra vita. L’hashish non era un problema trovarlo, qualche sera giravano le pasticche, un paio di volte gli si erano sciolti sotto la lingua degli acidi. Mangiava quasi esclusivamente frutta, che andava a comprare da un arabo poco distante dal luogo in cui si trovava. Usava i cessi dei piccoli stabilimenti sulla spiaggia, una birra ogni tanto o un cocktail alla sera, le docce erano libere, il quaderno per gli appunti e gli scritti, qualche vestito, la maggior parte del tempo era in costume, sotto l’ombrellone e la notte su una stuoia. I ragazzi accendevano falò e facevano feste, la musica, le risate, le droghe. I finesettimana la spiaggia si riempiva di persone e cani. Gli altri giorni era più tranquillo starsene per i fatti propri o scambiare due chiacchiere con chi passava e veniva, rimaneva un po’ e poi scompariva. I profili dorati delle dolci e giovani ragazze, abbronzate e sorridenti, quando se ne stava seduto all’ombra di un chiosco e le vedeva passargli davanti, mentre lui osservava con calma cosa succedeva intorno, sorseggiando una birra, disegnando mentalmente personaggi che le poi le parole avrebbero delineato e lasciato sfumare nello scorrere delle pagine e del tempo. 

Loop anulari lungo il Grande Raccordo Mentale, giri psichici ad alta velocità ed alta definizione, ogni uscita la possibilità di un quartiere in cui le suggestioni metropolitane diventassero spunti narrativi. I riflessi sui palazzi, le vetrate degli uffici, quelle dei negozi di lampadari. L’ultima luce del sole in un mosaico di riverberi incandescenti, Gli sarebbe piaciuto vivere per qualche settimana dentro uno di quei negozi, giusto per vedere fino a che punto la realtà si potesse scindere nelle scintille del subconscio. Seduto su una poltrona. A chiacchierare con clienti invisibili.


sabato 25 gennaio 2025

ZetaElle #21

 I sogni del mare e quelli dell’adolescenza e una barca per solcare acque sconosciute e arrivare in piccoli porti dove incontrare amici perduti, come se da qualche parte ci fosse ancora un luogo di libertà per ricordare quello che eravamo stati, per recuperare quell’energia dispersa, che poi era il mondo a portarti via, un’energia sprecata nella banalità dell’esistenza o nel quotidiano ripetersi di ogni lavoro, qualunque esso fosse. 

C’erano manifesti anarchici che Zito Luvumbo aveva letto, attaccati sui muri dei quartieri periferici, manifesti che incitavano alla rivolta e alla fine dello sfruttamento e di ogni guerra. Zito Luvumbo si guardava le mani e a volte erano del colore dell’ebano e si ricordava della sua razza e di quanto misteriosa fosse la propria natura e del suo mutevole aspetto e anche dei suoi simili che lavoravano per ore, come schiavi, in immensi campi sotto al sole, a raccogliere verdura e ortaggi senza che ci fosse nessuno a proteggerli o a spiegargli i propri diritti o a inventare storie nelle quali l’umanità prendesse forme diverse da quelle dell’abuso e della violenza.

Erano crollate ali di enormi palazzi e ponti sopra la città e l’estate continuava torrida e implacabile e Zito Luvumbo proseguiva con le sue passeggiate, a piedi o in bicicletta, le sue serate sulla terrazza ad ascoltare il mare e le stelle, prendeva appunti su un quaderno, si addormentava in silenzio, respirava e sognava.

E poi il ridestarsi di un ricordo e le sue immagini e una vecchia inquietudine che lo spingeva a muoversi di nuovo e Zito Luvumbo correggeva i testi che qualcuno gli mandava e sostituiva vocaboli e nomi e così la narrazione prendeva svolte inaspettate e una volta che il grande calore fosse passato anche le direzioni da prendere sarebbero diventate più nitide, giusto per un attimo, prima di sfocare nell’amniotica quiete di una decisione, dello spazio al suo interno, grandi vetrate e aria condizionata e luce calma e la vaga sensazione di essere come in un acquario, ad osservare il paesaggio all’esterno, quell’isola, il suo profilo lontano.

Lo scrittore e il suo vecchio amico parlavano, discutendo se rimettersi in mare su una barca o meno. Poi si erano separati, si erano allontanati, perché lasciarsi giustificava la propria solitudine. Lo scrittore si insinuava nella psiche del suo passato, lo osservava e sapeva che quell’insieme di racconti andava distrutto, ci sarebbe stata un’esplosione, al largo, il battello sarebbe andato in fiamme e non ci sarebbero stati soccorsi e superstiti.

Lo scrittore tendeva l’orecchio nell’attesa che qualcuno chiamasse il suo nome ben sapendo che erano in pochi, ormai, a ricordarselo.


domenica 12 gennaio 2025

ZetaElle #20

 Ancora antichi borghi, profili di anziani seduti nell’ombra, ricordi di pellicole mai girate se non fra le piaghe di menti raggrinzite e di nuovo le trappole delle sostanze e uomini dal volto sudato, accasciati sulle scale all’interno di ennesime interzone psichiche - Una bottiglia di birra prima del mezzogiorno, un’altra sigaretta fra le labbra, membri di band punk inesistenti fumavano e chiacchieravano, i tatuaggi come chiazze di stupidità fra le braccia - Le rondini attraversavano le onde calde dell’aria e planavano sulla superficie di una piscina per poi tornare a volteggiare nei loro pirotecnici cerchi, lo sguardo dello scrittore seguiva quelle scenografiche traiettorie e il vento voleva voltare pagina e le case dell’infanzia e il suo nome chiamato da voci scomparse e le colline si muovevano in paesaggi aridi e sinuosi, con improvvisi filari di pioppi che tagliavano i campi e le forme aliene e verdeggianti dei boschi e quelle geometriche degli uliveti e un senso di quiete e di calma e la sonnolenta pace del pomeriggio e le tende che oscillavano come in una danza araba e le nuvole che volteggiavano lente senza assumere i contorni di bizzarri animali e qualcuno in una stanza stava pianificando futuri complotti e storie sovversive con picaresche partiture sonore, i guaiti, i gemiti, le urla, i sussurri, le grida, i sospiri, le stelle cadenti nel cielo nella notte di San Lorenzo, i baci rubati nell’adolescenza, le scie lucenti di amori svaniti, lo scrittore era sdraiato su un’amaca, il bicchiere di vino in una mano, il lento e ipnotico dondolio del tempo, un respiro di malinconica eternità che fioriva sulle labbra, perché sapevamo che il ritorno era il futuro di ogni rinuncia, di ogni breve pausa, fra mura sgretolate, in stanze silenziose, nell’eco di una risata, nel passare dei giorni, chiusi ad aspettare, il ripetersi delle storie, l’inizio di una nuova sconfitta.

domenica 22 dicembre 2024

ZetaElle #19

 C’erano tronchi di alberi piantati nella sabbia, ormai sbiancati dal sole, sui quali, la sera, venivano legate delle bandiere con il simbolo dei pirati e alcune barche si avvicinavano dal mare e scaricavano delle casse piene di oppio, alcolici e panetti di hashish e poi sarebbero stati accesi i fuochi, la festa sarebbe cominciata, con le danze, la musica e le orge sotto i riflessi della luce lunare.

I profili di altre isole all’orizzonte, linee azzurrine frastagliate fra cielo e mare e un piccolo porto disegnato su un promontorio, con i suoi locali fumosi e le sagome delle case colorate e le vecchie stanze da affittare durante l’estate, fino a quando fosse arrivato l’autunno e sulle colline sarebbe iniziata la vendemmia.

Zito Luvumbo, senza neanche sapere come esserci arrivato, sedeva nell’ombra di arbusti cresciuti sul limitare della sabbia, guardava il mare e provava a chiedersi cosa ne fosse stato del tempo vissuto, di quello rimasto intrappolato nei percorsi ripetuti delle abitudini, di quello improvvisamente liberato da una crisi, da un terremoto emotivo, da un’errore commesso, dalle rivelazioni di un sogno dimenticato.

C’era una densità di parole poetiche nelle pagine dello scrittore a cui sembrava mancare una controparte logica e razionale, i dialoghi erano inesistenti perché non c’erano più personaggi che avessero voglia di parlare, si formavano così estenuanti monologhi interiori, forsennate descrizioni di scenari psichici, a volte alterati dall’uso di sostanze, altre così struggenti da fare male.

Il lento rollio delle onde e i corpi in movimento, poi quelli che Zito Luvumbo aveva visto venire a galla dopo un naufragio, dopo un’ennesima tragedia nel mare, qualcuno aveva lasciato una corona di fiori sulla sabbia, qualcuno aveva recitato una preghiera nella propria lingua, Zito Luvumbo sapeva che la morte conosceva il nome di tutti noi e che i giorni che continuavano ad arrivare non erano altro che un’illusione di suoni e colori sconosciuti, di vaghe forme cantate, di baci e carezze assopite, nel caldo di una stanza piena di polvere e ricordi, una stanza nella quale riposava e le tende alle finestre diventavano, in alcuni momenti, vele trascinate dal vento verso un orizzonte lontano, un’altra linea che il destino tracciava al di fuori di noi, delle nostri mani, nel fugace desiderio di essere raggiunto o di scomparire fra i sospiri di un oppiaceo oblio.


martedì 17 dicembre 2024

ZetaElle #18

 Costruivamo capanne sulla spiaggia con tronchi e rami e con quello che il mare portava con sé da terre lontane. Eravamo giovani e ridevamo e non avevamo bisogno di molto per vivere. E l’estate era un periodo facile per tirare avanti e amare e divertirsi. E avevamo hashish e tabacco e acidi a sufficienza affinché i giorni divenissero luoghi in movimento e la nostra mente li potesse attraversare nello splendore del sole e in quello delle stelle. La notte accendevamo dei fuochi e parlavamo e suonavamo e cantavamo e gli obblighi del lavoro e di ogni responsabilità non ci avevano ancora fatto prigionieri e ci guardavamo e ci riconoscevamo, senza sapere che è proprio il presente il tempo della giovinezza, perché dopo sarà l’accumularsi dei ricordi a crescere come una presenza nel cuore, a cui guardare nel crepuscolo degli anni, quando il nostro scorrere diventa ormai inarrestabile e la morte appare come il profilo di un’isola misteriosa all’orizzonte, sulla quale, un giorno, approderemo.

Era una vita da pirati e da vagabondi, raccattavamo cibo nei piccoli paesi lungo la costa o lo rubavamo, non che avesse realmente importanza, fumavamo e scopavamo, alcuni di noi vivevano in piccole grotte, le ragazze danzavano e ridevano e i loro corpi magici fluttuavano fra i colori di fragranti nudità e sognavamo e inventavamo storie, la preferita era quella di una società diversa, ugualitaria, libera, sorridente. Guardavamo il mare, guardavamo il cielo, guardavamo il sole, guardavamo le stelle.

Zito Luvumbo era di nuovo un ragazzo e come gli altri faceva esperienze e scopriva parti di sé stesso. E i libri dalle pagine strappate e l’ombra dei teli tirati fra i tronchi dei pini marittimi e quegli attimi interminabili come le scintille sulle onde. E l’amore e poi quello che sarà solo il suo ricordo. Quando le tue cicatrici si saranno chiuse e la malinconia di quello che è stato e non potrà più essere ti accompagnerà ovunque, come un’amante silenziosa, come un’ombra di quieta  solitudine, mentre osservi in disparte le onde arrivare e il mondo che ti accoglie prima di voltarti per osservare il profilo di un’isola nel vuoto che si apre al di là dell’abisso.


sabato 14 dicembre 2024

ZetaElle #17

 Pezzi di specchi appoggiati alle rovine di un muro in cui guardare i propri volti affamati e sporchi e radersi in una mattina di apparente normalità, dopo un ennesimo bombardamento notturno che non aveva lasciato vittime ma solo altre macerie. E macerie di macerie. Una frantumazione costante di quanto costruito, un sentiero fantasma che si snodava fra edifici sventrati, non c’era più niente di riconoscibile intorno, una nuova città famelica e mostruosa era sorta fra i miraggi di un’architettura apocalittica, file di uomini e donne davanti alle poche fonti di acqua rimasta, il tanfo della morte era ovunque, quello dei corpi decomposti, il sole era alto nel cielo, splendidamente azzurro.

Al risveglio Zito Luvumbo guardava il mare, poi le sue mani color ebano, poi camminava sulla spiaggia, la Feniglia si allungava per chilometri (come ci era arrivato? Si domandava lo scrittore mentre rileggeva questo paragrafo), poi si riposava all’ombra dei pini marittimi, circondato dal suono vibrante e continuo delle cicale accaldate, osservava la vita e quando era stanco chiudeva gli occhi e osserva la vita dentro di sé.

Le spiagge, le vacanze, gli esodi di turisti e profughi, le migrazioni, le piste nel deserto, le carovane, gli accampamenti.

Zito Luvumbo intravedeva oasi lungo i tremolanti bordi di pomeriggi lontani, attraverso il riverbero del calore della sabbia, infuocata dal sole. Poi miraggi di antiche città nelle quali avrebbe voluto vivere. Un sorso d’acqua, un piccolo bicchiere di vetro riempito di tè alla menta, la quiete solitaria all’interno di una tenda, di una capanna costruita con rami spezzati di alberi venuti dall’oceano.

Lo scrittore era calmo e guardava il piatto orizzonte. E forse oltre di esso. L’alba assaporata da una terrazza di una casa sul mare (la stessa in cui abitava Zito Luvumbo? Si chiedeva una voce nella sua testa). I cicli del tempo. Creazione e distruzione. Le maree dei ricordi. Altri giorni in cui ti lasciavi andare senza troppi pensieri. Ancore mentali che venivano sollevate. Gocciolanti di intuizioni, di perle lucide sul riflesso del mare. Le scie bianche e le isole inesplorate che affioravano dall’abisso tumultuoso della psiche. Fili di candida incoscienza, un innocuo sorriso, ogni domanda travestita d’innocenza e le foglie sugli alberi che danzano in un mattino d’estate, quando tutto sembra ancora possibile, in attesa che la rugiada diventi il fugace riflesso del nostro risveglio.


sabato 7 dicembre 2024

ZetaElle #16

 Appartamenti notturni di cui possediamo la chiave per entrare, stanze vuote e ingombre di ricordi infantili, simboli fallici che vengono spezzati e poi silenzio e telefonate che speravo non sarebbero più arrivate. Lo scrittore aspettava di rimettersi in cammino, senza meta e soprattutto senza più nessuna malsana idea di voler ritornare. Ci pensava sempre la notte a creare quello che esisteva al suo interno e oltre di esso. I sogni rimodellavano in un ordine diverso e casuale le nostre esistenze e l’energia fluiva e si disperdeva e le fantasie erotiche apparivano solo come stupide e inutili rappresentazioni adolescenziali, te la ricordi ancora quella fremente trepidazione giovanile di farsi una sega? Chiedeva lo scrittore a sé stesso. Eppure in quel teatro panico e sensuale avevano preso forma vizi e perversioni e del puro atto sessuale poco era rimasto, travolto e trasfigurato dal pandemonio pornografico fino a quando ogni possibilità della libido fosse stata omologata in un canale di  fruizione onanistica e per questo ripetitiva e ossessiva, diventando consumo e dipendenza  e nulla più.

Zito Luvumbo leggeva libri di poesia in riva al mare o su una sdraio sotto un ulivo, in un’oasi mentale nella quale era fuggito, con i contorni di isole allungate sull’orizzonte, profili azzurrini d’aria che la terra con i suoi limiti sembrava solo profanare e piccoli giardini con alberi di arance e limoni e cespugli di rosmarino lungo pendii sorretti da grossi massi lunari. E poi le passeggiate e la voce del mare e gli echi delle estati passate e di quando anche lui era stato un ragazzo e poi il dolore di ogni amore finito, di ogni separazione e con esso un’intima necessità di essere altro da sé. Tutte le nuove identità che gli avevano dato o che lui stesso aveva costruito, perché la fuga divenisse un modo per difendersi e svanire, oltre l’apparenza di decisioni sempre mutevoli e forse neanche mai prese. Zito Luvumbo e le sue storie ancora da raccontare, i presagi di un destino differente, le ombre di qualcuno che si allontana da te, toccando con le sue dita lidi lontani, una luce che tremola nel buio, perché anche noi siamo tenuti a passare e a svanire, così come ogni onda che vediamo arrivare e che ogni orma lasciata un giorno cancellerà.  


mercoledì 4 dicembre 2024

ZetaElle #15

 Lo spirito di Zito Luvumbo, alzato e trasportato in aria, nel cielo - Visioni del mare e di isole, di derive e approdi, un mare calmo, non come quello attraverso il quale era arrivato in Italia, un mare tranquillo, come fosse quello interiore, durante i periodi di meditazione - Una luce tenue, quella dell’alba o del tramonto, un tempo sospeso dove le uniche voci ancora presenti erano quelle della memoria e i suoni apparivano e scomparivano in una amniotica attesa, il divenire era il fluire e non c’era distinzione fra l’oggi e il domani, perché il passato era il presente e noi vivi e poi svaniti in un luogo che nell’attimo successivo non sarebbe più esistito.

E Zito Luvumbo aveva ancora negli occhi i cadaveri dei naufragati, dei barconi rovesciati, dei corpi che riaffioravano senza vita e poi al loro posto arrivavano immagini bibliche di migliaia e migliaia di pesci morti, uccisi dal caldo e dalla presenza di alghe assassine, argentee e poi putride presenze sulla superficie dell’acqua e così di quegli uomini e di quelle donne affogate non c’era più traccia e le spiagge erano diventate deserte e le orme di chi ci era passato erano state cancellate dai riflussi delle maree. 

E Zito Luvumbo si sentiva come senza peso, senza pensieri, senza forma e sostanza e pensava in sequenze incomplete, lontane dal linguaggio e forse aveva  trovato la libertà, quella che nessuna parola ci ha mai saputo spiegare.

ZetaElle #24

  La città in agosto: vuota, silenziosa, sospesa. Quasi un miracolo, pensava lo scrittore, mentre passeggiava per il parco vicino alla casa ...