Andavo da Morlan per le droghe: erba, acidi, oppio. C’era un parcheggio dietro il locale e una serie di stanze che il proprietario affittava, in una viveva un vecchio hippie e quando avevo bisogno delle sostanze mi recavo da lui. Mi raccontava la sua vita e io gli facevo delle domande, ero curioso e mi piaceva il modo in cui parlava, il suo accento, la calma nella sua voce. Le giornate passavano lente, come il mare che osservavo da una panchina, era un ottimo maestro e avevo ancora molto da imparare, sapevo perché ero qui, le ultime ossessioni ghignavano dalle pareti della stanza o sulle piastrelle bianche di un cesso, alcuni giorni vedevo l’oceano respirare, le onde che arrivavano come fossero oro fuso e la luce che tagliava le nubi esplodendo in una moltitudine di riflessi, le rocce colavano liquide e la sabbia pulsava in ogni suo granello, una miriade di stelle che vorticavano in clessidre di attimi disintegrati e le sfumature del tramonto come scie di colore in una prospettiva senza fine, la linea dell’orizzonte diventava ondulata mentre il profilo delle colline si sgretolava in decine di tonalità di verde e i gabbiani volavano al rallentatore, lasciando segni azzurri nell’aria, i gatti che dormivano sui divani mentre stendevo un cuscino sul tappeto e caricavo la pipa perché la notte era arrivata e con lei la danza delle candele e dei ricordi e chiudevo gli occhi un momento prima che i tuoi apparissero nella mia mente, i quadri delle divinità indiane appesi ai muri della stanza e qualcuno che dormiva in un letto di memorie disfatte, c’era l’immagine di un uomo dentro uno specchio e il rumore della pioggia poco prima dell’alba, quando scostavo le tende e lei accarezzava il mio volto, mi giravo per guardarla, come fosse un’amante che stava per svegliarsi, c’erano profumi che non avrei più respirato, pensieri che solo le mie dita erano ancora capaci di esprimere.
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