C’era da dire che le uniche persone che mi si avvicinavano o mi chiedevano qualcosa erano straccioni o rompicoglioni. I primi cercavano un contatto visivo affinché gli allungassi qualche spicciolo, mi infastidivano quelli in piedi davanti ai supermercati, per lo più africani, perché credevano che fare l’elemosina fosse una specie di lavoro. Odiavo profondamente entrare in un supermercato con tutti i suoi castelli e cattedrali di merci (e di merda, tanto poi era questo ciò che il cibo diventava), bella la libertà del consumismo, pensavo, montagne di scelte solo per quello che potevi comprare, poi se nella vita eri uno schiavo (del lavoro, della famiglia, di qualsiasi altra cosa ti venga in mente) non gliene fregava un cazzo a nessuno.
Poi c’erano i rompicoglioni di varie associazioni umanitarie, contro la droga, per la pace, contro la guerra, per i bambini, le donne, i vecchi, i cani e i froci, mi mettevano in uno stato di nervosismo assoluto appena ne percepivo la presenza. Anche questi solitamente con il loro tavolinetto davanti all’entrata di un supermercato. Sapevo bene come funzionavano ‘ste merdate e sapevo bene che se uno voleva aiutare gli altri lo doveva fare di persona, dare un paio di euro o firmare un foglio erano solo un modo veloce e indolore per mettersi con la coscienza a posto e per considerarsi altruisti e vicini alla sofferenza del prossimo tuo. Tutte stronzate. ‘Sti tipi delle associazioni umanitarie cercavano solo un modo per agganciarti, iniziavano con una battuta, un mezzo saluto, una frase ad effetto, a me non me ne fregava un cazzo di quello che dicevano, mugugnavo qualcosa e tiravo dritto. Stavo pensando che avrei dovuto comportarmi come un idiota, un ritardato mentale quando li incontravo, magari sbavando o dicendo cose senza senso, almeno così mi avrebbero lasciato in pace. Con il resto della gente era l’indifferenza pura, non uno sguardo, non un sorriso. Tutti stavano attaccati con gli occhi ai propri cellulari, sull’autobus, sulla metro, altri parlavano da soli per strada in quella che immagino fosse una comunicazione con qualcuno (o forse con loro stessi?), ma perché farlo ad alta voce mentre si camminava mi risultava alquanto misterioso. Nei parchi stavo bene, come al solito o quando giravo in macchina senza fretta, ascoltando la musica, credo fosse la prima volta nella mia vita che mi ritrovassi nella mia città senza l’ansia di andare da nessuna parte o di rispettare un orario. E questo era il punto. Tutti gli altri erano talmente nervosi, stressati, incazzati, arrabbiati, così lontani dallo stare bene che neanche si rendevano conto di stare vivendo in una maniera sbagliata. Semplicemente era così. Bisognava correre, muoversi in fretta, senza sosta. Ma perché? Perché?
Mi sono fermato, un giorno, a bermi una birra vicino alla fermata del tram che di solito prendevo dallo scalo di San Lorenzo per andare a lavorare. C’era un traffico assurdo lungo la strada. Bene, mi sono detto. Mi sono seduto su un muretto a bermi mooooooolto lentamente una birra e a osservare. A ognuno che mi guardava dalla propria macchina sorridevo. Di cuore, veramente. Dopo non più di un paio di secondi quasi tutti voltavano lo sguardo e tornavano nei loro pensieri, qualsiasi essi fossero. Dovevo sembrargli un folle. A bere birra, sorridere e non fare niente. Fermo. Chissà forse un giorno lo avrebbero fatto anche loro. Riposarsi un attimo, chiudere gli occhi e capire che, in fondo, un posto vale l’altro se non sappiamo come trovare l’unica strada importante, quella che porta dentro di noi.
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