luoghi
oscuri e volti di amici scomparsi incontrati in un sogno, le alte torri di una
città piena di archi, le lacrime durante la notte, perché il dolore trovasse
una sua via, una sua strada per diventare reale, qualcosa di caldo
e umido, come il fondo del tuo ventre, liquidi bianchi e pensieri dispersi,
tutte le cose che mi hanno rubato, tempo e amore, giorni e gioia e a distanza
di anni qualcosa rimaneva sempre ad illuminare il mio essere, quello di cui sono
fatto, sangue e sperma e anima e ho visto così nitidamente in un
parco la bellezza splendente del mondo che camminare tra vermi e cani ringhianti
è diventato un peso quasi insostenibile e ancora tu distesa nel mio letto o
seduta sui gradini di una scalinata mentre mi parli come non facevi da così tanto tempo e ti ho
sentita di nuovo vicina e sono così stanco, così stanco delle cose che mi
circondano, dei volti, delle parole, della stessa identica presa per il culo
che continua ininterrotta intorno a me, una gabbia di bugie ed illusioni che
gli altri costruiscono ora dopo ora, non riuscendo mai a vedere, a capire
le mie azioni, il mio amore, i miei sentimenti, è così dura, a volte,
affrontare i giorni eppure conosco bene la strada per la felicità e la quiete,
basta osservare la luce che arde e illumina, l’unica ed eterna luce che
illumina e fa vivere ogni cosa, quella luce che ogni essere vivente possiede,
quella luce che si nasconde oltre le ombre e i riflessi delle apparenze, c’erano
giorni che avevo dimenticato e che sono tornati a turbarmi, passiamo così
veloci e incoscienti, recitiamo ruoli e cadiamo nelle nostre stesse paure rendendole
sempre più reali, avevo già deciso che non sarei tornato più dietro, avevo
deciso da tempo, lasciarsi alle spalle il coro stonato di una moltitudine di
fantasmi, sedersi nella calma dello spazio interiore, la sua dolce musica, i battiti dell’amore
e quelli della pace, è tutto vero, c’è un luogo in cui la mente si dissolve in
respiri senza fine, c’è un luogo in cui ogni cosa è reale e viva e
meravigliosa, in silenzio, è il momento di andare.
domenica 31 agosto 2014
lunedì 18 agosto 2014
freewheelin' #11
Onde gigantesche arrivavano dall’alto, precipitando in
cascate di schiuma, un faro rosso, Rafael seduto sulla punta di una roccia, le
figure minuscole che scivolavano sulle creste marine per poi sparire in vortici
di smeraldo.
Naufraghi su una spiaggia alla ricerca di legna per il
fuoco, misteriosi esseri scendono verso di loro, le intenzioni sono minacciose,
silenziosi si avvicinano.
Rumori nella notte, fuori della casa. Julian si alza
dal suo letto, completamente nudo. Si infila delle scarpe e prende il fucile
dall’armadio. Lo carica con un paio di pallottole. I rumori continuano. Lui
cammina piano, fino alla porta della stanza. Attraversa un corridoio. Apre
altre porte. Una volta fuori si muove verso il suo orto, il fucile in mano.
Passi silenziosi, i rumori continuano. Grattare, scavare. Si ritrovano uno
davanti all’altro, Julian e il coniglio. Si osservano per un breve attimo,
sotto i riflessi lunari. Si guardano negli occhi. Il coniglio corre verso un campo,
fulmineo. Julian toglie le cartucce dal fucile e le tiene in mano. Poi guarda
il suo orto. Guarda la luna. Una breve immagine di sua figlia nella mente. Un
sorriso. L’odore della terra è buono. Decide di tornare a dormire.
venerdì 15 agosto 2014
...
Quando si è giovani, l'indifferenza più arida, le porcate più ciniche, si arriva a trovargli la scusa del capriccio passionale e chissà quale segno di un romanticismo insesperto. Ma più tardi, quando la vita vi ha mostrato per bene tutto quello che può esigere in cautela, crudeltà, malizia soltanto per essere mantenuta a 37°, ti rendi conto, sei informato, hai le carte in regola per capire tutte le stronzate che contiene un passato. Basta in tutto e per tutto contemplare scrupolosamente se stessi e quel che si è diventati in fatto di schifezza. Niente più mistero, niente più ingenuità, ti sei mangiato tutta la poesia che hai vissuto fino a quel momento. E' un cazzo fritto, la vita.
louis-ferdinand céline
viaggio al termine della notte
giovedì 14 agosto 2014
Straniamento praghese (2006)
Me ne stavo nella stanza già da un paio di ore. Le ragazze
entravano a intervalli di venti minuti. Tutte molto carine, nulla da dire, i
miei collaboratori avevano lavorato bene. I provini seguivano sempre uno stesso
ordine. Le facevo entrare, cercavo di metterle a loro agio, le offrivo qualcosa
da bere. Cercavo di essere spiritoso ma allo stesso tempo volevo ispirare
fiducia. Non che dovessi fingere, in realtà ero sempre stato una persona di
questo tipo. Riuscivo a mettere a loro agio le persone.
Poi le ragazze iniziavano a spogliarsi, io facevo qualche scatto
di prova, cercavo di capire le loro preferenze, se fossero disinibite o meno,
se avessero quella luce speciale negli occhi che mi faceva capire di aver
trovato la ragazza giusta. Poi le domande di rito. Se avesse malattie, se
avrebbe fatto anche scene anal o lesbo o sadomaso. Le solite cose che si
chiedevano. Ogni venti minuti una ragazza usciva e ne entrava un’altra.
L’ambiente che avevo creato era estremamente rilassante e accogliente, le
ragazze, anche le più timide, uscivano sempre sorridenti, anche se l’esito del
provino non era andato un granché. Non davo mai rifiuti diretti, lasciavo
sempre detto che le avremmo richiamate o che potevano farsi vive loro dopo una
settimana. Naturalmente quelle più interessanti non ce le lasciavamo sfuggire.
Prendevamo i dati e tutto il resto e nell’arco di un paio di giorni le
contattavamo.
Dopo che una ragazza fu uscita dissi alla mia segretaria che
avremmo fatto una pausa per un paio di drink. Mi accesi una sigaretta e mi
preparai un gin tonic leggero, guardai il mio orologio (le cinque) e decisi che
finita la pausa avrei continuato i provini fino alle sette e mezzo e poi basta
per quel giorno.
Mi avvicinai ad una delle grandi finestre della stanza e guardai
giù per strada. Praga era stata sempre una città magica per me. Mi aveva
affascinato fin dalla prima volta che ci misi piede, quando ero ancora a
scuola, la gita del quarto anno mi sembra. Non mi ricordavo molto di allora,
avevo passato i cinque giorni della gita praticamente sempre fatto. Era stato
qui a Praga che avevo fumato per la prima volta la skunk, un’erba che nel corso
degli anni ebbi modo di imparare a conoscere molto bene. Altri tempi. Ma ogni
tanto le immagini di quello che siamo stati e di quello che abbiamo fatto
riemergono dall’abisso della mente per scorrere davanti ai nostri occhi.
E questi sono i ricordi.
Diedi un’altra boccata di sigaretta e tornai al presente. Ora la
situazione era delle migliori. Io e un paio di miei soci avevamo un intero
studio per le riprese e il montaggio qui a Praga, oltre a un paio di uffici in
centro. Adesso mi trovavo in uno di questi uffici. Spensi la sigaretta nel
posacenere e diedi una sorsata al gin tonic. Tutte queste ragazze portavano con
loro i propri sogni. Qualsiasi essi fossero, se avevano capacità e talento, io
li facevo diventare realtà.
(salto temporale di trenta minuti in cui il personaggio principale
finisce il suo gin tonic, si fuma altre due sigarette e in silenzio contempla
lo scorrere delle persone dalla finestra continuando a modulare i suoi
pensieri)
Proseguii con le altre ragazze fino alle sette e mezzo, poi altri
venti minuti per alcune chiacchiere con i miei collaboratori. Un paio di
ragazze erano decisamente interessanti, la segretaria mi disse gli appuntamenti
del giorno dopo, poi un’altra sigaretta di gruppo e infine feci uscire tutti e
rimasi da solo. Volevo starmene un po' per i fatti miei, prima, guardando fuori
dalla finestra, era come se mi fossi riavvolto mentalmente su me stesso. Era
parecchio tempo che non badavo ai miei pensieri o per lo meno a quelli più
intimi. Avevo dimenticato quella sensazione di leggero dondolio, di
un’oscillazione mentale che sembrava cullarti in te stesso. Potevi esser
paragonato ad una nave che solcasse un mare caldo, lucente e piatto.
Attraversavi i ricordi con la consapevolezza di essere ormai altrove e di poter
vedere nuovamente quelle cose con distacco, al sicuro. Scivolando.
Mi preparai un altro gin tonic, un po' più forte e mi sedetti su
una poltrona. Presi alcune foto che le ragazze mi avevano lasciato (ognuna di
loro aveva un book fotografico) e fantasticai un po' sul loro aspetto, su
quanto potessero essere dolci o porche al letto o magari tutte e due le cose
insieme. Più una faccia era angelica, pura, di classe, più una fotografia con
un cazzo che le entrasse nella bocca o che sborrasse su quel viso avrebbe avuto
effetto. C’era un qualcosa, in alcune delle foto o dei film che producevo, che
racchiudeva un’arcana bellezza che difficilmente riuscivo a spiegarmi. I corpi
delle ragazze in alcuni momenti sembravano rivelare tutta la loro magia e il
loro mistero e proprio nel momento in cui erano più esposti, senza veli, senza
nulla da nascondere. C’era un qualcosa nei loro volti contratti nell’orgasmo o
scossi dal piacere che in nessun altro modo sarebbe stato possibile catturare.
Il sesso le rendeva libere di esprimersi attraverso il proprio corpo o forse
era solo il mio occhio che riusciva a cogliere questo impulso fisico e a scoprirne
tutta l’incomparabile bellezza. Avevo stretto tanti rapporti di amicizia con
queste ragazze, tutte più piccole di me, tutte poco più che ventenni. Con i
loro grandi sogni, le loro aspirazioni, i loro mondi. Alcune ancora mi
chiamavano solo per farsi due chiacchiere. Con parecchie ci ero stato al letto,
ma mai per pretendere qualcosa. Erano loro che si trovavano bene con me e
decidevano di farsi scopare. E io accettavo e niente, niente era mai più bello
dei loro corpi che si stringevano intorno al mio. Delle loro gambe, dei loro
occhi lucidi, del rossore sulle guance, del sudore e della saliva. Niente era
più bello di quando le vedevo chinarsi e prendermi il cazzo in bocca. Mi
stupivo di quanto amore ci potesse essere nel succhiare una cappella o nel mettersi
il mio cazzo nella fica. Era qualcosa di dolce e personale. Era qualcosa che
condividevamo solamente noi. Era il nostro mondo. Tutto qui.
(salto temporale di un’ora, in cui il personaggio, ancora
abbandonato nel flusso delle proprie considerazioni, si finisce il suo secondo
gin tonic, chiude l’ufficio ed esce, cammina fino a piazza Venceslao e poi
verso il Ponte Carlo dove ammira uno stupendo tramonto)
Le statue del ponte mi guardavano, non avevo niente da dirgli.
Aspettai che il buio arrivasse con il suo fare lento e sensuale. Poi mi
incamminai di nuovo, non avevo molta fame, solo voglia di fare due passi. Le
piccole strade si rincorrevano, mostravano squarci di palazzi, nuove
angolazioni, piccole sorprese. Sorpassai un paio di ristoranti in cui avevo
mangiato parecchie volte, sorpassai alcuni negozi di vestiti (ormai chiusi,
vista l’ora), entrai in un negozio di liquori ancora aperto e comprai una
bottiglia di gin. Pagai e mi incamminai verso il mio appartamento, non molto
grande, ma sempre centrale. A Praga ci vivevo un paio di mesi all’anno. Uno me
lo facevo di inverno (allora la città era veramente magica) e uno a primavera.
Adesso era primavera.
Nell’appartamento, aperto il frigo, mi riscaldai qualcosa e
mangiai. Poi iniziai a bere il gin con l’aggiunta di acqua tonica. Non volevo
sbronzarmi, avevo solo voglia di bere. Bere e stare seduto. Bere e non avere
grandi pensieri. Non avevo voglia di niente di speciale. Solo la concreta
presenza di un bicchiere tra le mie dita. Avevo voglia di sentire il sapore del
gin ghiacciato nella bocca, mentre scendeva per la gola, mentre gonfiava il mio
stomaco. Misi su un vecchio cd dei Beatles, Rubber Soul. Rimasi così, a bere e
ascoltare musica.
Niente da dire. Quello che siamo stati per una vita difficilmente
smetteremo di esserlo. Finito il terzo bicchiere, rimisi la bottiglia in frigo,
insieme all’acqua tonica e misi su un altro cd dei Beatles, Revolver.
Poi fui di nuovo seduto. Chiusi gli occhi.
(lo scrittore è davanti al computer, le immagini svaniscono, torna
la sua stanza, il flusso si è interrotto, la storia finita. Lo scrittore non ha
altre idee da aggiungere, rilegge quanto scritto e corregge. Lo scrittore
continua ad ascoltare i Beatles mentre porta avanti il suo lavoro. Poi si alza
e va a pisciare. Pensa a quanto dovrà fare per la sera. Pensa a tante cose.
Pensa e si sconvolge. Lo scrittore chiude il programma di scrittura e spegne il
computer. Il mondo, fuori dalla sua stanza, continua a imbrogliarlo)
venerdì 8 agosto 2014
...
Quel che è peggio è che uno si chiede come l'indomani troverà quel po' di forza per continuare a fare quel che ha fatto il giorno prima e poi già da tanto tempo, dove troverà la forza per quelle iniziative sceme, quei mille progetti che non arrivano a niente, quei tentativi per uscire dalla necessità opprimente, tentativi che abortiscono sempre, e tutti per arrivare a convincersi una volta per tutte che il destino è invincibile, che bisogna sempre ricadere ai piedi della muraglia, ogni sera, sotto l'angoscia dell'indomani, sempre più precario, più sordido.
Forse è anche l'età che sopraggiunge, traditora, e ci annuncia il peggio. Non si ha più molta musica in sé per far ballare la vita, ecco. Tutta la gioventù è già andata a morire in capo al mondo nel silenzio della verità. E dove andar fuori, ve lo chiedo, quando uno non ha più dentro una quantità sufficiente di delirio? La verità, è un'agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere, morire o mentire. Non ho mai potuto uccidermi io.
louis-ferdinad céline
viaggio al termine della notte
giovedì 7 agosto 2014
High Hawaiians
diventavi sempre più reale nella mia mente, vedevo i canali, le biciclette e le loro scie luminose, le ragazze in vetrina che sorridevano, sapendo bene come funzionavano le cose, i sexy shop con i loro oggetti in metallo, gli anelli di costrizione, le fruste, le manette, la sensazione di una energia trattenuta e pronta ad esplodere, gli alberi di vondelpark, le loro chiome che si muovevano nel cielo, così nitide, i colori erano rivelazioni sull’essenza stessa del mondo, le mappe mentali, ancora, sempre più dettagliate, l’odore d’incenso del blackbombay, le candele accese, lasciate a danzare per l’intera notte, le spirali di fumo denso e grigio, che salivano verso il soffitto, dalla finestra della stanza il mondo esterno continuava il suo lento giro, persone che passavano, persone che passavano, gli interi cicli umani visti da un punto indefinito, dietro gli occhi, al di là delle normali percezioni, sdraiato sull’erba, che iniziava a muoversi, in technicolor, crescendo, la psilocibina che veniva digerita dal mio stomaco e saliva in bolle psichedeliche nella mente, la partenza, il decollo, lo spirito dolce e scherzoso dei funghi, eri come un bambino di pochi mesi, talmente felice di vivere, esistere, capace di ridere da solo, capace di provare una gioia senza limiti per un raggio di luce, una foglia di un albero, il blu turchese che brillava in tutto il suo splendore in un cesso chimico, sulla sponda del fiume il giovane siddharta si siede e osserva il mondo intorno, le onde di colore e benessere interiore, la realtà interna è la realtà esterna, la realtà esterna è la realtà interna, connessioni ovunque, la capacità di vedere, di vedere, di vedere, seduto nella posizione del loto il giovane siddharta respira e diventa un fiore che sboccia, sente le sue emozioni fluire e apririsi come petali meravigliosi, ogni cosa è chiara, pacifica, gli animali sono alleati, ti mostrano delle vie da seguire, puoi conversare con loro, ti vedono, sanno chi sei e non hanno paura, si avvicinano e si svelano nelle loro forme d’incanto, ridevo e camminavo, mi fermavo e osservavo, le bolle che salivano dallo stomaco al cervello, c’era un maestro accanto a me, che mi spiegava la semplicità e l’eterna bellezza di un mondo senza tempo, ero ovunque, in ogni luogo, ero un filo d’erba e un sasso e il verde smeraldino della natura che brillava nell’iride dei miei occhi, mentre mi scioglievo in riflessi d’acqua e risate d’argento.
lunedì 4 agosto 2014
San Pedro #3
Il suono del tamburo era
ritmico, una voce ululava nella notte, dei fischi animaleschi bucavano l’aria,
facendomi vedere figure concentriche che si allargavano al loro passaggio nel
vuoto, il suono appariva come la scia lucente di una freccia che fendeva
l’aria, vista al rallentatore, che fioriva in corolle circolari, una dopo
l’altra, una ad ogni colpo del tamburo, volammo poi nel cielo stellato,
arrivando su un altura che dominava uno sterminato deserto, le rocce
millenarie, aliene, preistoriche, che si ergevano come colonne vertebrali dalla
terra, la luce e il buio si alternavano in maniera ritmica, ogni volta che il
tamburo batteva, adesso più lentamente, le ombre delle pietre rosse ed enormi
assumevano i contorni e le forme di volti dimenticati, questi sono i miei
antenati, i padri di centinaia di altri padri, perduti nel tempo eppure adesso
presenti, la loro lingua è quella dei sogni – disse il vecchio, volai sopra
quelle ombre e ascoltai i loro racconti, attraverso immagini mentali, simili a
quelle che percepiamo durante le esperienze oniriche, vidi le antiche cerimonie
di quegli uomini, li vidi mentre salivano sul dorsale pietroso che costeggiava
la valle della luna, di notte, in attesa che le divinità si manifestassero,
salivano in fila, portando delle fiaccole in mano e una sacca sulla spalla,
avevano delle vesti di lana che li ricoprivano interamente, come dei mantelli,
mentre la testa passava attraverso un buco aperto nel centro di quello
splendido tessuto, la luce delle torce tremolava nel buio e i canti di quegli
uomini sembravano fatti di vento e sabbia e una volta in alto, al limite del
dorsale, la luna uscì dalle nubi e loro si inginocchiarono e continuarono i
loro canti, le fiaccole vennero usate per accendere un enorme fuoco e loro si
sedettero in cerchio, intorno al fuoco, ognuno su una pietra con sopra inciso
un simbolo, accanto alle pietre c’era il sacco di lana che si erano portati
dietro la schiena durante la salita, dal sacco presero un lungo tubo dallo
stretto diametro, alcuni lo avevano di osso altri di legno, poi presero una
tavoletta, ce ne erano di diversi tipi: rettangolari, iperboliche,
trapezoidali, ellissoidali, con una parte leggermente scavata, sempre
rettangolare, su alcune tavolette c’erano delle incisioni che raffiguravano
animali, giaguari, lama, alpaca stilizzati, lo sciamano aveva una piccola borsa
di pelle attaccata alla sua cintura, la aprì e iniziò a tirare fuori dei semi
di cebil, ne consegnò cinque ad ognuno degli uomini che sedevano sulle pietre,
in cerchio, davanti al grande fuoco. Gli uomini presero un altro oggetto dalle loro
sacche, un piccolo mortaio di pietra, ci misero dentro i semi e li iniziarono a
pestare con una delle pietre che si trovavano da tutte le parti intorno a loro.
Una volta che i semi divennero polvere gli uomini si fermarono, intonarono un
nuovo canto, sommesso, a voce molto bassa, poi presero i lunghi tubi e tutti
insieme, contemporaneamente, aspirarono la polvere. Poi fu silenzio e il
tamburo del sacerdote e lo spazio infinito intorno, le stelle, il deserto, le
montagne, l’intero universo raccolto in suono ipnotico. Nel cielo i punti
luminosi si univano in forme archetipiche di animali, che cambiavano a seconda
del ritmo del tamburo, il cosmo si espandeva e si restringeva, poi fu di nuovo
silenzio, una nuova melodia nacque nel mondo, meravigliosa e infinita, come la
visione di ognuno di quegli uomini.
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