Vagavo
per i boschi, poco prima del tramonto, raccoglievo dei piccoli funghi dai
prati, li mangiavo, poi m’immergevo nel verde, le sue sfumature erano infinite
come le possibilità della mia mente, le sue storie, le sue percezioni. A volte
ero completamente nudo tra gli alberi, mentre immaginavo sentieri da seguire e
coglievo segnali che solo io potevo vedere, i fili di una ragnatela brillavano
come i contorni delle foglie, un fiore di porcellana irradiava la sua gioia, le
gocce che cadevano dalle cime degli alberi come minuscole perle sospese nel
vuoto, percorsi d’estasi, rumori sconosciuti, antri oscuri e il muschio che era
una soffice carezza o la barba millenaria di un antico essere fiabesco. Davanti
allo specchio, la mia immagine che si moltiplica ai lati come nelle
raffigurazioni delle divinità indiane, un fiore purpureo che si muove e si
avvicina alla punta del mio cazzo mentre lo tiro fuori per pisciare, lo inizia
a succhiare, soffici contrazioni ritmiche, un vecchio indiano mi guarda da
un’antica fotografia, gli occhi immobili, la lunga pipa in mano. La mia sborra
colava sulla terra umida, la mia voce diventava un’eco di piacere, sapevo che
gli alberi mi stavano guardando, chiedendosi chi fosse questo folle personaggio
uscito fuori da un’allucinazione panica, ero io la loro visione, la proiezione di un
mondo vegetale talmente perfetto da trasformarmi in caos.
martedì 25 ottobre 2016
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