Volti
di amiche nelle strade, oscurità e asfalto, le chiavi della casa ad Aphex,
Susanna e Alessio che mi aspettano in macchina mentre cerco di chiudere un
cancello, i corpi da sfiorare, quelli che non vogliono essere toccati, i
sussurri della violenza, le pulsioni interrotte, i punti che la pelle nasconde
come codici segreti di piacere, il gatto nella cucina che mi scivola fra le
dita, i passaggi morbidi e lenti, fra i sogni e gli stati di veglia, era sempre
lo stesso personaggio nelle sue varianti oniriche, qualcuno che poteva
percorrere i tempi e gli spazi alterati di ogni mondo possibile, tornare
indietro e perdersi nelle gallerie sotterranee di metropoli del futuro, avrei
accompagnato mio padre a bere birra fra i resti di edifici industriali
distrutti, accoglievo i presagi del buio come messaggi da interpretare,
bisognava smetterla con il pensiero e lasciarsi guidare da tutto ciò che la
ragione sembrava non comprendere, avremmo imparato di nuovo a conoscere la
vita, i suoi misteri e la sua essenza, i nomi che diamo alle cose non sono
altro che suoni che il vuoto disperde fra le foglie fruscianti degli alberi e
le scintille di splendore della luce d’inverno.
sabato 30 dicembre 2017
domenica 24 dicembre 2017
Noddfa Dawel #2
Stanze
dalle pareti gialle e donne impazzite da abbandoni e fallimenti, progetti che
le discariche della vita raccoglievano, si collezionavano miserie e oggetti
senza più valore, spazi fisici e mentali che il disordine disponeva in
geometrie da crisi di astinenza. Qualcuno aveva abbandonato la città per
rifugiarsi tra le colline, si costruivano case e si scopava liberamente, poi
c’erano state fughe e false identità, bisognava nascondersi dalla polizia e
aspettare. Dipendenze e alcolizzati cronici che spaccavano le vetrine dei pub
per fregarsi qualche bottiglia di liquore, pere e punizioni, pene e
umiliazioni, le stanze oscure con le pareti imbottite, le voci e le urla,
terapie sperimentali e pillole di acido per frantumare la psiche, distorsioni
comportamentali e lingue che nessuno sembrava comprendere, ripetilo ancora,
suggeriva la dottoressa, mentre accavallava le gambe e potevi vederle l’orlo
delle calze, legato sul lettino, i coglioni che pulsavano, una settimana senza
sborrare, questa sembrava essere la sua strategia, mentre si sfilava le scarpe,
conoscendo bene le tue debolezze e scoprendone di nuove, seduta dopo seduta,
domanda dopo domanda, dovremmo continuare con questa terapia, diceva,
guardandoti negli occhi, non riuscivi a controllare le tue erezioni, lei
prendeva appunti, poi se ne andava, il cazzo di marmo negli anelli di
costrizione.
Luoghi
bui e fantasie proibite e giorni che svanivano oltre le sbarre di prigioni
compulsive, ossessioni e ripetizioni, qualcuno ti aveva dato dei pennelli, i
disegni sui muri, la vernice che colava, stilizzazioni falliche, camice di
forza, il tempo e l’attesa, il ronzio delle lampade, i corridoi che
sussurravano agonie senza uscite.
giovedì 21 dicembre 2017
beat #2 (1998)
Ed è in
questa assenza di tempo e di spazio, nell’immobile grigiore delle nuvole, che
fingo di vivere. E mi raggiungono gli aghi dei pini sotto i quali sto
scrivendo, lunghe, lunghe poesie e lettere d’amore. E nell’aria c’è una strana
quiete, quella dell’ora di pranzo, quando le donne cucinano e gli uomini
stappano bottiglie di vino sui loro tavoli millenari, dove genitori e genitori
di genitori hanno mangiato e pianto e ucciso i loro fratelli, mentre Caino
lavava i piatti sporchi e si specchiava nelle acque del fiume Lete, dove tutti
noi un giorno (il più tardi o il più presto possibile) finiremo per arrivare. Sulle
sue rive ci spoglieremo e poi lasceremo che il nostro involucro mortale si
sciolga lentamente nel buio segreto delle sue Acque.
Sono
ancora seduto a programmare le prossime illusioni (un viaggio ad Aphex,
ritornare a Praga) e la simbiosi di queste alterne speranze in un kafkiano
rifugio di stolta umanità. Dove ho trovato uomini capaci di sentire e rimanere
in silenzio? Le rocce giacciono per anni e anni sempre nel solito posto, non
una vita nomade, avventurosa, un gitano appassionarsi all’essenza e allo stato
delle cose, ma una millenaria riflessione zen (la ruota del Dharma ormai
immobile), la nascosta e sfuggente Unità Che Tutto Unisce e un secondo dopo, l’attimo
seguente a quello appena pensato, forse la fine dell’Uno e la nascita del
Molteplice, della nostra vita che scorre in infinite vie (così difficile da
trovare quella che ci appartiene) o forse in nessuna.
Alte e
silenziose montagne, nascondete per un attimo i miei occhi e il mio corpo alla
realtà, chi più falso di me o anarchico attore di questo spettacolo dorato che
scorre in palcoscenici di vanità quotidiana, in una confusa e caotica
inquietudine che non vuole repliche.
mercoledì 20 dicembre 2017
Noddfa Dawel #1
Baracche
abbandonate e silenzio, stanze piene di vecchi oggetti, poltrone impolverate,
libri con pagine mancanti, divani sfondati, scatoloni colmi di lampadine, i
giochi della luce sulle pareti, una strana calma, la notte faceva di nuovo
freddo e lo scrittore cercava delle coperte, camminando per i corridoi, aprendo
porte di pura immaginazione.
C’era
ancora lui, seduto da qualche parte, a osservare il tramonto, schiere di case
costruite sulla sabbia, i ritmi delle maree e i discorsi lunari, le siringhe e
l’eroina, una vecchia alcolizzata che raccontava dei suoi amori tossici, gli
occhi a spillo, le ennesime fughe mentali, troppi acidi, troppe droghe, ognuno
aveva oltrepassato il confine e si era perso, dimensioni interiori proiettate
in un caotico mondo di disordine e smarrimento, oasi di delirio, promesse
scritte con la vernice sulle pareti di celle di isolamento.
Continuavano
a confondersi illusioni e possibilità, le rivoluzioni erano deragliate, treni
di utopie lanciati in una folle corsa verso il nulla, le stazioni diventavano
sempre più solitarie e così i passeggeri, erano finiti i saluti e gli incontri,
poi solo una serie di addii senza speranze.
Chiamavamo
ad alta voce i nomi degli assenti, non c’erano risposte, crolli di strutture
nervose, quelle su cui si decideva l’equilibrio della vita, siamo stati
catturati e tenuti prigionieri, le domande che alla fine abbiamo smesso di
farci, le nubi all’orizzonte che diventavano astratte composizioni cromatiche,
il pittore aveva finito il suo oppio e voleva solamente tornare nell’oblio.
Chiudevi
le ultime stelle in prigioni di spazio e universo, le speranze che hai
implorato con voci di divinità inesistenti, le guardie che ti hanno proibito di
varcare la soglia, hai chiesto aiuto alle persone sbagliate, hai confessato
debolezze e paure ai tuoi stessi nemici, circoli di sedie e regole scritte
nella polvere, i buchi sulle braccia, le forme grottesche delle case, bastavano
i minuti a raccontare bugie, hai chiuso gli occhi e il buio aveva lo stesso
volto degli uomini uccisi nei sogni.
domenica 17 dicembre 2017
Llanidloes #8
Travestimenti
notturni nella tenda di Robyn e oggetti e gioielli e bizzarri accessori, i
cambi d’identità sessuale e un ragazzo seduto su un divano pieno di cuscini,
una bustina con dell’erba jamaicana fra le dita, qualcuno che accende la stufa
mettendoci dentro dei pezzi di legno, poi una serie di fotografie nelle mie
mani: i costumi, gli sguardi, le trasformazioni.
Nel
pomeriggio della domenica il sole era lucente e illuminava il mondo in un’estatica
meraviglia, io e Bea eravamo sdraiati sull’erba a bere birra e fumare hashish
marocchino insieme a Ken e lui sembrava stranamente a suo agio in mezzo a noi
mentre una donna parlava di suo padre, di quando si erano conosciuti ed erano
racconti che si perdevano nei ricordi di tempi fuggiti troppo velocemente,
senza controllo, perché nessuno sapeva cosa stava facendo, con le droghe che
alteravano e costruivano universi paralleli nei quali rifugiarsi o impazzire.
C’erano
dei vuoti nella memoria, delle parti mancanti e lo scrittore poteva aggiungere
nuovi particolari e ricostruire le scene come meglio credeva, Luna lo aveva
salutato con un bacio sulla mano e si era allontanata leggera e sorridente e Bea
chiacchierava con tutti e lo faceva sentire al sicuro, lo scrittore osservava
gli spostamenti, le direzioni, le pause, le improvvisazioni, si lasciava
trasportare e poi ordinava ancora da bere, ci saremmo mai liberati anche da noi
stessi? Ce l’avremmo mai fatta a non essere più nulla, solo vuoto e respiri e
nessuna voce a chiedersi e domandarsi significati e spiegazioni?
L’aria
della mattina era dolce e profumata e le sequoie immense visioni che lo sguardo
inseguiva, poi i tuoi respiri e i sentieri fra i prati e dove sarei arrivato
nei giorni che la vita ripeteva solo per gioire di se stessa.
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