Barbara era
vestita di bianco, seduta su uno sgabello, accanto a un bancone circolare, le
bottiglie dei liquori scintillavano su una parete a specchio davanti a lei, la
sala era piena di gente, qualcuno le si è avvicinato e l’ha invitata a ballare.
Avevo trovato un portafogli, sotto a un tappeto, mentre stavo pulendo una
stanza, era pieno di bustine di hashish e marijuana, di vecchie banconote
italiane e di alcune sterline. Mi sono ritrovato davanti alla porta del centro
massaggi di Sofia, sono entrato, mi ha accolto una ragazza, le ho chiesto se
Sofia fosse lì, lei è andata a chiamarla, Sofia è arrivata, più giovane, mi ha
sorriso, si è avvicinata, si è strusciata contro il mio corpo e con una mano le
ho accarezzato il culo, poi le ho detto che dovevo andare a prendere dei soldi
e sono uscito. Guardavo una foto appesa a un muro, era di mio nonno, con la
vernice rossa avevo pitturato uno dei suoi occhi, lasciando che il colore
colasse sul resto dell’immagine, spiegavo a mia madre l’importanza della
creatività nella mia vita, quanto la mia mente cercasse sempre una soluzione
artistica ai problemi, lei sembrava interessata alle mie parole. Cammino per
dei vicoli, i rumori e gli odori dell’estate, i volti come maschere dimenticate
dei personaggi che avevano attraversato la mia esistenza, gli ultimi ostaggi
della memoria, i passi in lontananza, le strette di mano e i piani di fuga,
ancora qui, a osservare i minuti, le linee verdi degli alberi fra le colline
immobili, David che accende il registratore e racconta la sua storia, recitando
frasi che qualcuno aveva scritto e inventato solo per lui.
lunedì 19 febbraio 2018
venerdì 16 febbraio 2018
senza titolo
C’erano
nuove divinità che gli occhi adoravano e avevano forme triangolari e occupavano
lo spazio fisico come miraggi di piramidi di vetro e metallo e gli schiavi
camminavano nelle strade e obbedivano alle scritte sui muri mentre le bocche
aperte, affamate e voraci dei bancomat vomitavano soldi e carte di credito.
C’erano serie di miserabili inginocchiati per terra, la fronte a toccare il
cemento, i tunnel sotterranei come intestini che digerivano vagonate di persone
dirette verso il loro lavoro per poi rigurgitarle nel grigio dei vapori, tra le
gocce acide di pioggia e i neon che lampeggiavano in ipnosi elettroniche. Vagavamo
alla ricerca di un senso che desse una possibile spiegazione a questo caotico
disperdersi, avevamo osservato con attenzione gli sbagli che qualcuno aveva
annotato nella nostra personale cartella clinica, prima di rinchiuderci in una
stanza, per otto ore al giorno, seduti davanti ad uno schermo a battere le dita
sui tasti, a rispondere al telefono, voci registrate che ci prendevano per il
culo e rubavano il nostro tempo, firmavamo contratti per essere ingabbiati e
dalle sbarre ci accontentavamo delle poche carezze di luce che venivano a
trovarci e dimenticavamo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, che c’era un
altro mondo, pieno di colori e voci diverse, ognuna con la sua melodia di suoni
e armonie, dimenticavamo perché ci era stato donato questo respiro, il perché
delle stelle e degli sguardi dell’alba eppure era ancora tutto qui, qualcosa che
potevamo toccare e sentire e osservare in ogni secondo, questa fluida e lucente
meraviglia, questo infinito trasformarsi, c’era una libertà che nessuno aveva
più il coraggio di accettare, perché significava ammettere che quello che possedevamo,
tutte le auto, le case e i televisori, non erano altro che nulla, una prigione
di false idee e bisogni, poi ci sono i miei occhi che osservano le nuvole nel cielo,
i fiori sbocciare, il sole nascondersi tra le foglie di un albero, il mio cuore
che si colma di gioia e tristezza, perché nulla di quanto è esistito è stato
mai nostro eppure tutto questo ci è sempre appartenuto.
martedì 13 febbraio 2018
London #8
ON/OFF,
giorni di lavoro, giorni di riposo, un ragazzo cinese seduto a un tavolo mentre
tira strisce di ketamina da un cartoncino piegato, il biglietto da visita di
uno spacciatore, io e Phil siamo usciti a comprare delle birre, ha iniziato a
piovere e ci siamo riparati sotto una tettoia, un uomo di colore ci è passato
accanto, aveva un anello d’oro a un dito, si è acceso una sigaretta e poi è
scomparso nel nulla, io e Phil ci siamo scambiati un’occhiata e senza parlare
siamo entrati in un off license.
Non
c’erano più facce da cazzo a farmi arrabbiare o a infastidirmi, i corpi che
vedevo intorno, nelle strade o davanti ai negozi erano pure simulazioni
mentali, proiettavo visualizzazioni psichiche in forme fisiche e umane, i
personaggi si muovevano, parlavano, svanivano e si ripresentavano in ruoli
diversi, i dialoghi erano pochi perché lo scrittore era più interessato alle
architetture lessicali, le strutture verbali applicate allo spazio urbano,
lettere alfabetiche enormi che modificavano il paesaggio delle città in serie
di significati nascosti, gli agenti della polizia del karma avevano scordato
come decodificare i messaggi, ci avrebbero pensato le nuove droghe a rendere
possibile un’altra lettura del reale, sempre che si potesse chiamare tale il
continuo ripetersi di allucinazioni sinestetiche. Una ragazza asiatica
accavallava le gambe e lo scrittore aveva il cazzo duro nei pantaloni, mentre
era seduto nella metro e buttava giù frasi sul suo quaderno nero, c’erano file
di poliziotti schierati fuori dallo stadio, l’enorme arco di sostegno
amplificava l’eco di leggi fisiche sul punto di essere abolite, una stanza in
un hotel, la finestra quadrata, le foto da controllare, le immagini che
scorrevano sulle pareti arcuate di un tunnel, ogni volta che tornavamo dentro i
labirinti del pensiero, fuggivo insieme alle parole, trascrivevo voci, mi
assicuravo che le tende fossero tirate e il buio perfetto, perché era il
momento di lasciarsi andare e sprofondare e ascoltare lo sciogliersi dei
respiri e delle ultime luci che anche gli occhi finivano per abbandonare.
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