C’era stato un tempo in cui era stato parte di una famiglia o nel quale aveva capito e provato cosa significasse quella parola. Poi quei legami si erano affievoliti, fino a sciogliersi. Poi erano arrivate catastrofi, guerre e carestie. Erano stati costruiti campi profughi e zone di interesse. I conflitti si ripetevano all’infinito. Zito Luvumbo aveva fatto parte di combattimenti, con divise militari o senza di esse, aveva avuto una moglie e dei figli e ancora adesso ripeteva mentalmente i loro nomi, come se accarezzarne il suono significasse averli vicini. Era stata una sfida superare il sordo muro di ogni dolore e trasformarlo in una storia diversa, estranea, che gli conferisse il potere di essere un altro, all’interno della quale fosse possibile superare lutti e disgrazie e ridefinire la parola amore senza che potesse più ferire il suo cuore. Ombre e luci. Come quelle che si inseguivano e vibravano e danzavano davanti ai suoi occhi. Il riverbero del deserto. Le stelle nelle notti di veglia e preghiera. Tutti quei corpi che non potrà toccare mai più.
Un uomo si sedette vicino a Zito Luvumbo e i due parlarono in arabo e poi l’uomo gli passò una cartellina con dei fogli e alcuni documenti. Dei bambini giocavano e dei ragazzi ridevano e scherzavano. La vita era un inganno. E ogni inganno una vita da inventare.
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