Vicoli stretti e muri bianchi che afferravano la luce, piastrelle azzurre e il suono delle fontane in lontananza, i giardini e la loro ombra, il profumo degli aranci e dei limoni. Gli uomini arabi seduti davanti alle porte segrete, gli sguardi di intesa, la polvere marrone dentro una bustina. Camminavo dentro i labirinti dell’Albaicìn e non c’era nessuno in giro a suggerirmi vie di fuga, la Sierra Nevada che appariva sopra Granada e tutta quella terra arida, spoglia, brulla e crepata. Visioni desertiche e gas di scarico che ricoprivano la città. Un uomo inglese viveva in una grande villa abbandonata e raccontava storie di espatriati e scrittori alcolizzati, spacciatori seduti ai tavolini delle caffetterie, le dosi nascoste nelle crepe del volto, gli occhi scuri a proteggere minuscole pupille, buchi neri che divoravano la vista, le sigarette ancora accese lasciate nei posacenere. I miserabili che si trascinavano lungo le vie assolate, le richieste delle vene e quelle degli aghi, il libro sacro aperto su un tappeto e le lampade che dividevano lo spazio in prismi dagli infiniti colori. Carezze di sabbia e vento sul viso, i giochi dimenticati dei ragazzi che siamo stati, c’erano ancora i loro corpi appoggiati ad una ringhiera di metallo e ruggine. Una foto scattata da dietro, i lunghi capelli, i frammenti del cielo che cadevano ovunque e le dita della notte a ricomporre segreti che nessuno aveva più voglia di svelare.
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