Le
linee degli oggetti nella cucina o dei volti seduti accanto al tavolo erano
fatte di pura luce, contorni splendenti che facevano risaltare le forme e i
limiti di tutto quello che potevamo toccare o amare. Vedrai quanto siamo
orribili, aveva detto Rebbecca, in un sogno o in una delle serate passate nella
sua casa, non avevo capito subito quelle parole, poi il loro significato si era
svelato negli attacchi di rabbia di Ken o nei momenti in cui lei perdeva il
controllo e risuonavano le grida di ferite ancora aperte, inflitte chissà
quando e chissà dove. Le potevo vedere ardere nel suo cuore e scorgerne il
riflesso nel mio. Avevamo parlato di letteratura, io e Rebbecca, del suo ultimo
romanzo, di Irvine Welsh, del lavoro quotidiano sulle parole. I dialoghi, i
personaggi, quel lento e doloroso definire, smussare, trovare il giusto flusso,
seguirlo, esprimerlo attraverso il linguaggio. Era così tenero e quasi
impaurito il suo sguardo mentre mi parlava ed era una delle prime volte che lo
faceva guardandomi negli occhi, di solito tendeva a sfuggirmi, l’avrei voluta
stringere fra le braccia e dirle che tutto sarebbe andato bene, che non c’era
nulla da temere, che la paura era solo il modo in cui finivamo per infliggerci
inutili sofferenze. E prima di andare a dormire Bea mi aveva abbracciato e
avevo sentito il suo respiro diventare il mio, lo stesso movimento del petto e
dei polmoni ed era così intima e dolce quella vecchia sensazione, quella di
tornare a casa, in luogo sicuro e caldo e ho pensato a Maria e a quanto mi
mancava tenerla fra le braccia e percepire nella mente e tra le dita la sua
essenza e le ultime volte che avevamo dormito insieme, in Germania, non l’avevo
più sfiorata e adesso mi domandavo come si potesse fuggire da qualcuno che ti
amava, il motivo di quel distacco, il modo in cui avevo deciso una fine senza
alcun senso, solo perché diventasse reale la possibilità di un’altra vita.
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