martedì 9 maggio 2017

Bryn Rhyg #10


Le linee degli oggetti nella cucina o dei volti seduti accanto al tavolo erano fatte di pura luce, contorni splendenti che facevano risaltare le forme e i limiti di tutto quello che potevamo toccare o amare. Vedrai quanto siamo orribili, aveva detto Rebbecca, in un sogno o in una delle serate passate nella sua casa, non avevo capito subito quelle parole, poi il loro significato si era svelato negli attacchi di rabbia di Ken o nei momenti in cui lei perdeva il controllo e risuonavano le grida di ferite ancora aperte, inflitte chissà quando e chissà dove. Le potevo vedere ardere nel suo cuore e scorgerne il riflesso nel mio. Avevamo parlato di letteratura, io e Rebbecca, del suo ultimo romanzo, di Irvine Welsh, del lavoro quotidiano sulle parole. I dialoghi, i personaggi, quel lento e doloroso definire, smussare, trovare il giusto flusso, seguirlo, esprimerlo attraverso il linguaggio. Era così tenero e quasi impaurito il suo sguardo mentre mi parlava ed era una delle prime volte che lo faceva guardandomi negli occhi, di solito tendeva a sfuggirmi, l’avrei voluta stringere fra le braccia e dirle che tutto sarebbe andato bene, che non c’era nulla da temere, che la paura era solo il modo in cui finivamo per infliggerci inutili sofferenze. E prima di andare a dormire Bea mi aveva abbracciato e avevo sentito il suo respiro diventare il mio, lo stesso movimento del petto e dei polmoni ed era così intima e dolce quella vecchia sensazione, quella di tornare a casa, in luogo sicuro e caldo e ho pensato a Maria e a quanto mi mancava tenerla fra le braccia e percepire nella mente e tra le dita la sua essenza e le ultime volte che avevamo dormito insieme, in Germania, non l’avevo più sfiorata e adesso mi domandavo come si potesse fuggire da qualcuno che ti amava, il motivo di quel distacco, il modo in cui avevo deciso una fine senza alcun senso, solo perché diventasse reale la possibilità di un’altra vita.

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