Diarree
verbali nel bel mezzo della notte, flussi sonori privi di significato, mi
rigiro tra le coperte con un sorriso sulle labbra, il divano mi abbraccia con
cuscini di pelle bianca, respiro e mi rifugio in quel luogo, apro e chiudo
quella porta. Abbracci e alterazioni, l’emmedi dava illusioni chimiche sul
senso dell’amore, poi le solite paure ad attenderti, due giorni perso in una
confusione piena di fantasmi. Qualcosa era diventato reale, un nemico da
combattere, la strada era fredda e la notte appariva minacciosa, mi ero
ritrovato con pochi soldi, qualcuno mi aveva ospitato, giravo per le stradine
del paese sempre con gli stessi vestiti, la libreria era un rifugio sicuro, per
scrivere e comunicare, tra messaggi e richieste di aiuto, poi precipitare di
nuovo nel flusso della vita, dove tutti i pezzi, anche se temevo sempre il
contrario, finivano per trovare la loro giusta collocazione.
Non
sentivo più nulla battere contro il petto, non c’erano immagini di donne pronte
a punirmi e torturarmi, non c’erano echi nella mente. Bisognava seguirle le vie
in cui ti ritrovavi, arrivare fino in fondo e vedere cosa ti aspettava. Le
ombre degli alberi correvano veloci oltre i fari della machina e Nick era al
volante e c’erano sostanze che mi ballavano nello stomaco e un’erba jamaicana
che ti faceva piombare in una dimensione sospesa di nebulose incertezze. La
musica era alta e rimbalzava tra i sedili e i finestrini, schiacciando i
pensieri per poi liberarli in forme misteriose e sconosciute. Le case di
mattoni rossi, il viaggio di un uomo attraverso l’Afghanistan, l’acido che
aveva assunto, i paesaggi in technicolor. La voce di Beth in una mattina grigia,
dentro una stanza piena di libri e dischi, foto e appunti, la moquette per
terra e il suo confortevole contatto sotto i piedi, poi questa stessa stanza,
in altre angolazioni e illuminazioni, le strisce di buio proiettate sulle
pareti, la barba di Fidel che sembrava muoversi e crescere. La poltrona su cui
avresti atteso la tua morte, le persone che ti avevano dimenticato, i figli di cui
non avevi saputo più niente. Tre mesi passati sulla riva di un fiume, in una
capanna, gli abiti logori, avevi deciso che nulla avrebbe avuto più importanza
e questa sembrava essere la scelta migliore, le cose che trovavi sul
bagnasciuga, le prendevi e le portavi con te, costruivi i tuoi feticci e
adoravi le tue divinità. I viaggi in nave, le onde che sputavano spuma in
faccia ai marinai, chiuso nella tua cabina, una sigaretta incollata alle
labbra. Le chiamate a ogni ora della notte, prendevi le chiavi e uscivi, la
macchina nera, i fari che violentavano l’oscurità, le fughe sull’asfalto e i
bizzarri incontri, le strane persone che dovevi portare da una parte ad
un’altra. Un ombrello giapponese attaccato a un angolo della parete, parlavi di
politica con te stesso e spendevi le ore del sonno a giocare a scacchi contro
un avversario che aveva il tuo volto, contavi il tempo, dividendolo e
moltiplicandolo, eri solo in una gabbia di abitudini che non ti avrebbe
salvato, parlavi tra le mura solo per ricordare il suono della tua voce. In una
casa di Londra qualcuno aveva iniziato a coltivare erba, file di vasi, spacciatori
e assassini tra i suoi contatti, una lettera da scrivere, un amore da ricostruire,
il passato stava svanendo, la tua vera vita era in bilico, un corpo che si
muoveva sui bordi dei sogni, confini da oltrepassare appena possibile. Prendi
un fiore tra le dita, lo osservi brillare, sei tu la luce che illumina questo
mondo, sei tu lo splendore di ogni suo singolo respiro.
Nessun commento:
Posta un commento