Silenzio.
E quello che svelava, ogni volta che la finivamo di parlare. L’aria e le
foglie. I versi degli uccelli. Il crepitare dei rami. Gli insetti. La luce era
meravigliosa nella mattina e Honor mangiava i suoi cereali seduta accanto a me.
I suoi occhi di bambina mi osservavano mentre le leggevo una favola e giocavamo
con buffi pupazzetti di plastica. Le risate d’oro e tutto il tempo che alla
fine mi ero ripreso e i gemiti durante la notte, gli orgasmi veloci, lo
sbattere bagnato degli organi sessuali, le parole sussurrate con voce roca
perché gli amanti fumavano troppo e si rincorrevano in una vita che non
sembrava avere pause. La lunga pipa metallica, Ken con il cucchiaio in mano
mentre scalda la cocaina sul fornello, un liquido biancastro e lattiginoso. Le
lunghe boccate, il crack, il fumo che esce piano dalle narici. George mi insegna
come fare, ma non è buon maestro, perché il suo volto, al risveglio, sembrava
distrutto e invecchiato, qualcosa aveva divorato la sua gioia, qualcosa a cui non
aveva più saputo rinunciare, i suoi occhi erano spiritati, la mattina, mentre
traballava sulle gambe nel tentativo di tirarsi fuori il cazzo per pisciare. Poi
altre pinte sul tavolo, altre sigarette, le canne, emmedi in cristalli, alcune
briciole sulla punta della lingua, era così amaro, gli effetti e l’empatia, mi
stavo avvicinando, più erano le droghe che assumevo e sperimentavo più mi rendevo
contro di quanto non ne avessi bisogno, potevo raggiungere quel benessere
semplicemente respirando, liberando la mente, ampliando la mia essenza. I
magnifici disegni buddisti all’interno di un libro, i demoni e gli uomini, i
volti trasfigurati dalle passioni, la quiete della beatitudine, un sorriso mite
sulle labbra, le dita delle mani intrecciate, la posizione del loto. Avevo
oltrepassato lo specchio, avevo camminato dall’altra parte, sapevo come
arrivarci, sapevo come tornare indietro, stavo imparando a scivolare sul bordo,
fino al punto in cui non ci sarebbe stata più nessuna differenza tra l’immagine
e il suo riflesso.
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