Eravamo seduti dentro all’Ultracomida e bevevamo caffè nero, discutendo di Akira Kurosawa e Takeshi Kitano, Mijazaki e ukiyo-e, di stampe giapponesi e della loro influenza sugli artisti francesi di fine ottocento, soprattutto Van Gogh, il dipinto della sua stanza ad Arles mi ricordava quella in cui adesso vivevo, le pareti gialle sulle quali avevo appeso le mie fotografie e un paio di quadri che avevo trovato dentro le camere dimenticate di Noddfa Dawel.
Durante la settimana facevo dei semplici lavori manuali, riparazioni e altro, usavo dei vecchi vestiti macchiati di vernice, presi da un sacco abbandonato ed era strano avere tutti i giorni le sembianze di uno straccione. Poi il pomeriggio mi mettevo a scrivere, a leggere o semplicemente a galleggiare nella mente, scivolare fra i ricordi, meditare, ascoltare il vento fra le foglie, la pioggia, osservare le nuvole, la luce, lo sfumare del giorno.
In un’altra stanza avevo trovato un borsone pieno di scarpe femminili, ne avevo prese un paio e mi ci ero masturbato dentro, riempendole di sborra. Nelle vetrine di un negozio avevo visto degli stivali alti, neri, avrei voluto una donna che li indossasse e mi ordinasse di leccarli, seduta su un divano, il bicchiere di vino in mano.
Fuori dall’Ultracomida Lynn ha detto con voce solare di andare al mare, ho avuto un flash dell’estate e del caldo e della sabbia dorata, della pelle bagnata, del sale, dell’odore delle creme, poi una raffica di vento ci ha raggiunto insieme alla pioggia e mi è venuto da ridere e abbiamo passeggiato verso la spiaggia ed era freddo e le onde erano alte e grigie e le strade chiuse perché nei giorni precedenti c’era stata una tempesta e l’asfalto era ricoperto di sabbia bagnata sulla quale lasciavamo le nostre impronte, sembra di camminare sulla neve ha detto Lynn e poi siamo tornati verso la stazione dei treni, mi sono fermato a comprare un paio di bottiglie di vino in un supermercato e dopo ci siamo salutati nel parcheggio dove lei aveva lasciato la sua macchina.
Era sabato pomeriggio e non avevo nulla da fare, sono andato a trovare Elliot, abitava in una casa che dava sul mare, mi piaceva sedere davanti a una delle finestre e bere un bicchiere di vino, guardare l’oceano, il cielo, ogni tanto Elliot suonava il pianoforte e le mie fantasie divenivano più reali, insieme ai viaggi immaginari e alle parole dei racconti che avrei scritto una volta tornato nella mia camera.
Gli anni passavano in una danza di eventi che mi trascinavano con loro, avevo ancora tempo e soldi a sufficienza per rimanermene nascosto un altro po’.
Non avevo fretta.
Non ne avevo mai avuta.
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