Il giorno dopo o quello dopo ancora avevo trovato Paul di nuovo ubriaco (o forse la sbronza non gli era mai passata), doveva essere mattina tardi e lui stava bevendo una birra, gli ho chiesto se ne avesse un’altra e lui ha indicato una borsa frigo vicino al divano viola, mi sono seduto, ci ho messo una mano dentro e ho pescato una lattina, l’ho stappata e ho dato un sorso. La cerveza era tiepida come piscio. Allora mi sono ricordato che avevo nascosto (previdentemente) una bottiglia di vodka dentro il bus con gli strumenti musicali di Tim, sono andato a prenderla e ho preparato un paio di vodka tonic (per fortuna c’erano ancora alcune bottigliette di schweppes in giro). Niente ghiaccio, ma l’essenziale ce l’avevamo.
Io e Paul abbiamo continuato a bere tutto il giorno, ogni tanto lui intonava una canzone e la sua voce era calda e impastata ma anche molto dolce, seguiva il flusso della propria ispirazione fino a quando non si è messo a interpretare il Mendicate di Granada e a farmi rimanere a bocca aperta, sorridendo, per la toccante sensibilità della sua performance.
Poi la sera è arrivata insieme ad altre persone, alcune di esse si sono messe a suonare, la musica vibrava nelle sfumature lisergiche del tramonto, una ragazza mi ha passato un quarto di acido, qualcosa di leggero, giusto per attraversare la notte e con essa ogni domani che non avrei mai vissuto se non nella mia immaginazione, perché è solo il presente il tempo dell’uomo, come qualcuno più saggio di me aveva scritto nei suoi diari di cangianti e sempre mutevoli illusioni.
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