Mattine invernali, il fumo che esce a sbuffi sopra i tetti, le strade vuote e gli echi di natali scomparsi, quando ero ancora un bambino, i regali da scartare sotto l’albero, quella semplice gioia, i pranzi in famiglia, quel senso di protezione, i giochi con le carte, la tombola, le immagini di volti familiari che cominciavano a sfuocarsi, a perdersi lungo i margini di quelle strade che avevo dovuto percorrere per allontanarmi da loro e fuggire, per vagare e perdermi, di stazione in stazione, in un meraviglioso viaggio in cui avevo lasciato libera la mia fantasia di modellare e trasformare il presente seguendo le logiche misteriose dei sogni o quelle liriche del cuore, dei romanzi, dei film, delle poesie.
Avevo scritto una storia unica, personale, svogliata e struggente, di cui ero stato il protagonista, l’autore e il lettore, in uno scambio costante di ruoli e posizioni, nell’affascinante ricerca di spazi intimi, interiori, in cui rifugiarsi e barricarsi, tentando così di difendere la propria esistenza dalla barbarie del consumismo e dell’omologazione, sapendo bene che la sconfitta sarebbe stata il traguardo, l’unica e gloriosa vittoria ancora possibile.
Lente passeggiate lungo i canali, a guardare i barconi fermi sulle sponde, inventando situazioni letterarie, vagheggiando sulle intuizioni narrative che ogni imbarcazione offriva, l’odore del carbone, l’acqua immobile e sporca, il volo improvviso di alcuni uccelli e oltre le chiome degli alberi si intravedevano le prime sagome degli edifici del futuro, architetture che trasformavano i miei pensieri in una continua proiezione lisergica, scattavo foto in bianco e nero affinché quelle geometrie del subconscio non si sciogliessero nel pattume di idee ripetute e inutili e poi c’erano i parchi in cui la mente e le gambe potevano riposarsi e gli alberi mi accoglievano di nuovo con la loro pacata benevolenza e così i ricordi arrivavano e la memoria diventava il presente e questo preciso momento non aveva più una posizione chiara, perché sarebbe potuto solo essere un immaginario punto di un disegno (o uno scherzo) infinito, incomprensibile, insulso e incompiuto.
Alcune linee erano state spezzate e dei progetti originali non rimaneva che un’astratta e malinconica composizione, solo così l’arte era libera di esprimersi e la materia della vita stessa diventare malleabile e modellabile a nostro piacimento o contro la nostra volontà, i recinti erano stati distrutti e i confini cancellati e c’erano vele alzate in giornate senza vento, quando era solo l’illusione di muoversi a mandarci avanti.
E ancora il mio volto riflesso in uno specchio in un tenue chiaroscuro e oltre la cornice che racchiude ogni nostra immagine i muri e gli oggetti di appartamenti in cui altre persone vivono e poi scompaiono, perché questo è il nostro destino. Pregavamo spesso affinché tutto ciò finisse e quando sarebbe arrivato il momento di andarsene, avremmo solo voluto un attimo in più. Meglio prepararsi da subito ed essere pronti a lasciare ogni cosa, nella luce che ci avvolge nulla è mai esistito.
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