sabato 4 marzo 2023

London #9

 C’erano case in cui lo scrittore aveva vissuto e mattine grigie in cui l’alba non era stata altro che un pallido vagito di luce e gesti e azioni che richiedevano la dovuta lentezza - Alzarsi, accendere la stufa, mettere l’acqua a bollire, preparare il caffè, aprire il quaderno, iniziare a scrivere - C’erano stati luoghi in cui ero potuto essere un altro, qualcuno diverso da me, un estraneo così vicino alla mia reale essenza che poteva immaginarsi la mia vita negli spazi fra i respiri, nel silenzio,  quando mi trovavo così sicuro al loro interno, chiudendo gli occhi, lasciando i pensieri svanire e le emozioni passare.

Mattine invernali, il fumo che esce a sbuffi sopra i tetti, le strade vuote e gli echi di natali scomparsi, quando ero ancora un bambino, i regali da scartare sotto l’albero, quella semplice gioia, i pranzi in famiglia, quel senso di protezione, i giochi con le carte, la tombola, le immagini di volti familiari che cominciavano a sfuocarsi, a perdersi lungo i margini di quelle strade che avevo dovuto percorrere per allontanarmi da loro e fuggire, per vagare e perdermi, di stazione in stazione, in un meraviglioso viaggio in cui avevo lasciato libera la mia fantasia di modellare e trasformare il presente seguendo le logiche misteriose dei sogni o quelle liriche del cuore, dei romanzi, dei film, delle poesie. 

Avevo scritto una storia unica, personale, svogliata e struggente, di cui ero stato il protagonista, l’autore e il lettore, in uno scambio costante di ruoli e posizioni, nell’affascinante ricerca di spazi intimi, interiori, in cui rifugiarsi e barricarsi, tentando così di difendere la propria esistenza dalla barbarie del consumismo e dell’omologazione, sapendo bene che la sconfitta sarebbe stata il traguardo, l’unica e gloriosa vittoria ancora possibile.

Lente passeggiate lungo i canali, a guardare i barconi fermi sulle sponde, inventando situazioni letterarie, vagheggiando sulle intuizioni narrative che ogni imbarcazione offriva, l’odore del carbone, l’acqua immobile e sporca, il volo improvviso di alcuni uccelli e oltre le chiome degli alberi si intravedevano le prime sagome degli edifici del futuro, architetture che trasformavano i miei pensieri in una continua proiezione lisergica, scattavo foto in bianco e nero affinché quelle geometrie del subconscio non si sciogliessero nel pattume di idee ripetute e inutili e poi c’erano i parchi in cui la mente e le gambe potevano riposarsi e gli alberi mi accoglievano di nuovo con la loro pacata benevolenza e così i ricordi arrivavano e la memoria diventava il presente e questo preciso momento non aveva più una posizione chiara, perché sarebbe potuto solo essere un immaginario punto di un disegno (o uno scherzo) infinito, incomprensibile, insulso e incompiuto.

Alcune linee erano state spezzate e dei progetti originali non rimaneva che un’astratta e malinconica composizione, solo così l’arte era libera di esprimersi e la materia della vita stessa diventare malleabile e modellabile a nostro piacimento o contro la nostra volontà, i recinti erano stati distrutti e i confini cancellati e c’erano vele alzate in giornate senza vento, quando era solo l’illusione di muoversi a mandarci avanti. 

E ancora il mio volto riflesso in uno specchio in un tenue chiaroscuro e oltre la cornice che racchiude ogni nostra immagine i muri e gli oggetti di appartamenti in cui altre persone vivono e poi scompaiono, perché questo è il nostro destino. Pregavamo spesso affinché tutto ciò finisse e quando sarebbe arrivato il momento di andarsene, avremmo solo voluto un attimo in più. Meglio prepararsi da subito ed essere pronti a lasciare ogni cosa, nella luce che ci avvolge nulla è mai esistito. 

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