Arrivavano immagini dall’isola di Madeira, con feste notturne ed escursioni nella nebbia che avvolgeva verdi vallate piene di enormi piantagioni di banane. E lo scrittore si vedeva nascosto in un fattoria, in una di quelle valli, ad assumere allucinogeni locali, piante, semi, cactus, funghi (sempre ammesso che ce ne fossero) e a immedesimarsi nella vita di un possibile rifugiato psichico, un lunatico avventuroso approdato su quell’isola nella remota illusione che nessuno lo avrebbe trovato e gli avrebbe rotto i coglioni con i suoi problemi e le sue persecuzioni emotive. E in un certo momento letterario Zito Luvumbo lo avrebbe raggiunto, senza però riconoscerlo, i due si sarebbero seduti ad uno dei tavolini di un bar del porto, guardandosi e rimanendo in silenzio, in improvviso contatto telepatico, per poi svanire all’interno dei rispettivi destini.
Aveva piovuto e l’aria odorava di pioggia e di terra e di alberi e lo scrittore avrebbe voluto trovarsi in qualche bosco, magari nel Galles centrale, all’interno di un rifugio fatto di tronchi e pietre con solo l’essenziale e avrebbe voluto vivere lì per un po’, con le azioni quotidiane che avrebbero riempito il tempo e poi quello rimanente si sarebbe disciolto nei sogni, nella scrittura, nei ricordi.
Lo scrittore si era riempito un bel bicchiere di vino rosso e aveva osservato il cielo, gli piacevano i suoi colori plumbei, acquosi, striati di sfumature rosa e arancioni: una sutura di dolce incandescenza. La notte si era addormentato con il rumore della pioggia e aveva sorriso a sé stesso, sentendosi bene, da solo, nel letto, nel silenzio di momenti sospesi. Alla vita lui apparteneva e da essa fuggiva per finire nello spazio vuoto oltre i ricordi, le speranze e le nostre iridescenti disfatte.
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