una mattina di luce, i miserabili addormentati tra i
poveri abiti della notte, le strade ancora poco frequentate, i binari rialzati
e le curve di metallo nello spazio, camminavo con lo zaino in spalla, un ultimo
giorno, una ennesima partenza, i locali ancora chiusi, gli echi elettronici di
una musica mentale, una stanza dalle pareti bianche, un divano rosso scuro,
tavolini di legno, l’erba comprata da un africano poco dopo la stazione di
görlitzer banhof, le birre bevute sulle panchine dei parchi, i tuoi anfibi
neri, lasciati cadere su un pavimento in rovina, enormi palazzi abbandonati,
corridoi senza voce, le parate di regime, gli occhi del popolo fissi sulle
immagini di volti giganteschi, le trasmissioni radio notturne, le circonferenze
vuote tagliate nelle pareti di marmo, una ragazza australiana parlava di un
film che avevamo visto entrambi, i suoi occhi oscillavano avanti e indietro,
mancava concretezza alle occasioni che capitavano, lasciavo sempre che ogni
cosa si avvicinasse e si allontanasse, senza mai fermarla, ogni persona
rimaneva solo lo stretto necessario, prima di svanire, per sempre – stanze
piene di fumo, ragazze bionde e sorridenti, le labbra piene, non avevo nessuna
voglia di tornare indietro – i cantieri della città offrivano numerose
occasioni per trasformarsi, impalcature e travestimenti, identità sessuali e
materiali ibridi, penetrazioni del cemento nell’aria, un senso di oppressione,
colossi proletari, trema l’asfalto sotto lo spostamento masturbatorio dei carri
armati, i cannoni in erezione, puntati verso il cielo, eiaculazioni balistiche
– le divise strappate, buttate sul letto, la violenza dei morsi sul collo, le
calze lacerate da dita frementi, le urla di piacere, parole che non capivo,
mentre colavano nelle orecchie insieme alla tua saliva, punti di controllo,
domande ripetute, le macerie intorno, il trucco nero, che si scioglieva come
pece sotto i tuoi occhi.
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