scritte
oscene sulle pareti di maiolica di un cesso, dimensioni del pene, inviti
omosessuali, indirizzi e angoli oscuri in cui farsi inculare, un locale gay,
aperto di mattina, gli uomini che entravano ed uscivano, mentre aspettavo
fuori, con i brividi alle ossa, il mio contatto – un altro uomo, con una catena
al collo, legge un giornale, seduto nella sala di attesa di un aeroporto, il tè
troppo caldo, le parole inutili di una donna che sbrodola lamentale sul
cellulare, un nuovo quaderno, ideogrammi giapponesi tatuati sulla schiena di
una giovane ragazza, la sua fronte china, che sfiora il pavimento di legno, i
capelli neri legati sulla nuca, i colpi ritmici di un frustino di cuoio sulle
sue natiche di perla, i segni rossi che sbocciavano, i suoi lamenti d’amore –
proiettavamo fantasie e gli altri le proiettavano su di noi, vedendoci in modi
che non avremmo mai immaginato, le stanze segrete in cui ogni cosa poteva
diventare reale, un ultima porta da aprire, in silenzio, i suoi piedi che si
muovevano sulla mia lingua, lenti, sinuosi, senza mai fermarsi, movimenti ipnotici
e sensuali, i sogni che nessuno ricorda al risveglio, quel senso di vuoto nero,
di scene mancanti, di sequenze che qualcuno ha tagliato nella sala montaggio
della mente – i discorsi che vogliono intrappolarci, li senti che si annodano
intorno ai pensieri e alle emozioni, ti tengono stretto, tirano verso il basso,
sabbie mobili pulsanti, vagine cerebrali, il ripetersi indecente delle proprie
debolezze, un occhio che scruta famelico da dietro una finestra, le storie di
controllo dettate all’orecchio di un demente, i suoi ghigni di giubilo, la
dolcezza dimenticata di una mano che mi sfiora i coglioni, le immagini ripetute
in loop automatici di una vita che ho dovuto cancellare, parti di dialoghi
suggerite dallo sceneggiatore all’orecchio, prima di addormentarmi, le
possibilità di un addio, quelle infinite di uno sguardo.
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