Le
telefonate da Birmingham, i produttori della BlackBombay che tentavano di
contattarmi, il mio cellulare spento, muto, ucciso in un angolo del tavolino di
legno nero, le ultime immagini che cercavo di cancellare dalla mente, le
inquadrature psichiche che i sogni riproponevano in scenari impossibili, lavori
lasciati senza una fine, tagli su sequenze che avevo smesso di immaginare, loro
mi volevano ancora, contratti che nessuno aveva firmato, le lunghe limousine
che attraversavano luci metropolitane e spazi di ombra e buio, gli occhiali da
sole a proteggere sguardi tossici, le ragazze con le gonne corte, l’odore delle
loro fiche era ovunque, ti risvegliavi in letti sconosciuti, le strisce già
pronte sulle superfici lucide, la pioggia che rigava la città, i graffi sulla
pelle, i lividi come ricordi d’amore, gli occhi pesti e la memoria che
riscriveva le sue sceneggiature, personaggi in volti deformati dalle droghe,
dialoghi notturni che l’alba faceva svanire dalle pagine e dalle bocche, le
assi colorate di un appartamento, viola e rosse, il corpo nudo di una ragazza
seduta su uno sgabello, i dischi poggiati per terra, gli enormi amplificatori,
gli strumenti elettrici, alcune fotografie attaccate ad una parete, c’era
sempre la sensazione di essere da un’altra parte, i pensieri che oscillavano
sui limiti di percezioni alterate, gli sguardi in macchina e le labbra intorno
ad un enorme cazzo, c’era da chiedersi chi avesse creato quell’estetica, come
si fosse arrivati a quella maniacale ossessione per i dettagli, ci avevano
pensato il denaro, i guadagni e l’illusione della ricchezza, c’erano uomini che
avevano indossato maschere per rendere più reali le loro menzogne, c’era anche
il silenzio, in alcuni momenti, quando potevi per un attimo guardare oltre gli
obiettivi e le lenti, le luci e i riflettori, gli occhi persi nel nulla e la
quiete e il vuoto in quell’assenza di rumore e prospettive, poi tutto tornava a
girare, a complicarsi, te ne andavi per le strade ancora avvolte dalla notte,
una sigaretta incollata al labbro, c’erano puttane che ti salutavano,
spacciatori da cui non volevi più farti vedere, amici che il tempo aveva
trasformato in manichini di un teatro abbandonato, le sale vuote, le poltrone
piene di polvere, su quel palco avevi recitato molti ruoli, poco più di
elementari improvvisazioni, ti stancavi presto delle parti e ripeterle
settimana dopo settimana era stupido quanto inutile, eppure ti avevano pagato e
avevi accettato quei soldi e ti eri dimenticato cosa fosse quel respiro che
nascondevi nel petto, parole e frasi e gesti eclatanti per sconfiggere la
paura, intere nottate davanti ad uno schermo, a modellare, rifinire, rendere
fluide tutte quelle sequenze, la musica nelle orecchie, melodie scritte per
portarti altrove, scosti le tende, guardi oltre il vetro, le luci rosse e
intermittenti sulle cime dei grattacieli, il mare, oltre il cemento e il
metallo, una mano che ti accarezza la schiena, dove sei stato in tutti questi
anni? Non posso dirtelo, ho solo aperto una porta, poi ne ho chiusa un’altra e non
sapevo che fra di esse ci fosse questa
infinita confusione senza ritorno.
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