Erano passate quante? Due settimane? Di più? Il tempo interiore è difficilmente calcolabile se ci ritroviamo in quella dimensione confusa, eccitabile, apatica e immaginativa che l’erba produce e così scompariranno anche gli appigli di ore-minuti-secondi e la nostra fuga di fantasie proibite si perderà in un spazio che non saranno gli orologi a costruire - Vivevo a Piazza Vittorio, in un piccolo appartamento in uno dei vecchi palazzi che la circondavano, le mie mani scrivono lente, la nebbia della mattina è svanita e il sole sta iniziando a riscaldare le mie dita e spero che le parole possano apparire più velocemente sul foglio, perché tutta questa fretta? Per tenere il ritmo delle immagini mentali e dei pensieri che arrivano - Compravo oppio dai cinesi e passavo le giornate chiuso in casa a fumare dalla lunga pipa, steso sul divano, sul tappeto logoro - Passavo ore a decifrare gli alfabeti segreti dei ricami floreali consunti della carta da parati, leggevo storie dimenticate fra gli odori dei mobili, delle pagine polverose dei libri, fra i sospiri di vecchie foto che mi cadevano dalle mani - Ascoltavo i misteriosi racconti dei fantasmi di chi aveva vissuto in questo luogo prima di me e c’erano ricordi di marinai e viaggiatori e trafficanti e contrabbandieri - E c’erano stati incontri con prostitute, perché le puttane apparivano sempre più romantiche e vicine all’essenza della vita di una donna qualsiasi - E c’erano lettere, centinaia di lettere che aprivo e smascheravo con gli occhi, pensando di scrivere risposte che nessuno avrebbe mai ricevuto - C’erano album di famiglia dai bordi bruciati, con istantanee di persone ormai morte, le osservavo al lume delle candele mentre fuori pioveva e accendevo la stufa a gas e prendevo un’altra coperta di lana ormai lisa dall’armadio, quel sentore di canfora e giorni perduti - Scrivevo i miei appunti su un quaderno di pelle nera, nella modesta e solitaria malinconia della camera da pranzo, c’era una ricchezza di sensazioni che non era il valore economico delle cose a suggerire ma quanto altri uomini avevano messo delle loro esistenze e delle loro passioni dentro di esse, donando a quegli oggetti un’anima, il potere di poter comunicare attraverso il contratto delle loro superfici sui palmi delle nostre mani - Parlavo con gli arabi, i bengalesi, i cinesi, gli africani che giravano, lavoravano e vivevano nel quartiere - C’era un libro che qualcuno aveva lasciato nell’appartamento, senza il nome dell’autore e parlava di un uomo che aveva vissuto (o forse solo immaginato di vivere) in questo quartiere, si intitolava le alte torri, una serie di porte verso l’ignoto - I viaggi cominciavano quando chiudevo gli occhi e posavo la pipa sul tavolino di legno nero, basso, scheggiato, bellissimo e c’erano ricordi, come fotogrammi mentali e tutte le sensazioni provate e racchiuse in essi - Fuori pioveva o forse solo dentro la mia scatola cranica, nelle storie che lì venivano create e di cui lo scrittore era quasi sempre il protagonista - Avevano camminato dei pittori sulle assi sconnesse del pavimento, c’erano ancora aloni sbiaditi di macchie di colore che non sarebbero andate più via, c’erano tele alle pareti e volti e figure femminili nude o in pose lascive e poi l’oblio della notte, quando tornavo indietro almeno di un secolo per ritrovarmi di nuovo su un tappeto, cosa ero diventato? Pazzo, poeta, idiota, vagabondo? Unico e solitario erede di un’ultima invisibile generazione di scrittori falliti? Eppure avevo trovato dei gioielli e dell’oro nascosti sotto una delle assi del pavimento e ne avevo venduti alcuni e così mi ero fermato e non avevo più pensato a come avrei dovuto guadagnarmi da vivere, a come fare per tirare avanti, non me ne fregava niente dell’aspetto economico di questa commedia, il denaro mi metteva orrore, volevo esistere dentro di me fino alla fine dei miei giorni, in questo corpo, poi sarei andato altrove, chissà dove… Avevo comprato dell’altro oppio e così i giorni svanivano lenti e onirici e c’erano solo racconti di pura fantasia riflessi nei miei occhi e in questi momenti, anche nei più opachi, tutto cominciava a brillare, a vibrare, a divenire reale, così come solo i sogni possono esserlo, tu e l’altro e chiunque in un attimo sospeso fra verità e menzogna abbia deciso di diventare.
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