Avrei dovuto perdermi fra queste strade e abbandonare le meravigliose ville e viste del Vomero e planare e atterrare nella sporcizia, nel degrado, nella confusione dei negozi, dei monologhi degli abusivi, nelle vie oscure, nel bel mezzo di quell’umanità che mi atterriva, disturbava e infastidiva, fatta di figli e madri e padri di cui non avrei mai voluto fare parte, solo osservare, di nascosto, nelle mentite spoglie di un’ombra, a fotografare, a scrivere, a ridosso degli echi della Spagna dei re, nell’architettura nobile e poi borghese, nei labirinti reticolari e popolari di viuzze e vicoletti, perditi, perditi ancora ripeteva lo scrittore, zaino in spalla, rimettiti in viaggio, inventati una nuova fuga, un nuovo amore da seguire e incontrare nei sogni che lo incorniceranno.
I livelli della città si sovrapponevano e l’aria, in quelli inferiori, diventava pesante e calda, anche se erano i primi di ottobre e continuavo a sudare mentre scendevo scalini e scalinate e c’erano ingannevoli parentesi di silenzio e poi la tavola lucente del mare, fuori dalla finestra, mentre rientravo nel mio corpo e nel lento ondeggiare dei postumi del gin e del campari, con il sole che ti accarezzava e ti svegliava insieme al corpo di una persona amata e alla sua pelle e ai ricordi di altre case, in estati e in altri risvegli e non sapevo neanche come fossi arrivato qui o quando me ne sarei andato, le ultime pagine di un giorno che mi ero dimenticato di scrivere, quelle strappate, quelle che altri mani cercavano e rimettevano insieme, in un ordine diverso, in una cronologica onirica e senza senso, continuavamo a smarrirci fra i sentieri del mondo e non ce ne era nessuno da cui sarei voluto tornare.
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