Un’alba che sorge da freddi tessuti onirici metropolitani, una macchina (da scrivere?) lasciata chissà dove, Maria che veniva a trovarmi, un castello da visitare, le rovine del passato, cumuli di pietre ad indicare direzioni svanite nel dischiudersi dei giorni, la pioggia cadeva e Father Tim benediceva la sorgente d’acqua di Bryn yr Blodau. Io, Samara e un gruppo di persone gli eravamo intorno, tutti fradici per il temporale che ci aveva colpito mentre lui spruzzava su di noi le sue benedizioni greco ortodosse, litanie sacre in antichi canti orientali, l’odore dell’incenso che bruciava, quello della mirra, le alte arcate di chiese mai visitate, il silenzio di preghiere rivolte verso nessun dio, Costantinopoli era nascosta da tappeti incandescenti, i fiori d’oppio, i misteriosi raggi energetici di sistemi planetari inesplorati, i libri trovati dentro bauli abbandonati, le iniziali di uomini scomparsi nei vagoni di treni diretti oltre le sterminate steppe della Mongolia, il magic bus parcheggiato accanto al gipsy wagon dove vivevo, Father Tim continuava ad intonare i suoi deliri messianici e apostolici, profeti scheletrici che vagavano impazziti in deserti spirituali, i richiami della montagna, vision quest, quattro, sette, dieci, quattordici giorni di digiuno e astinenza, i meravigliosi ricami dei paramenti sacri, porpora e oro, poi qualcuno ha fermato le parole e il tempo e tutto quello che ogni mito ha da sempre racchiuso e narrato, dentro di sé, la terra da arare, i semi da piantare, il ciclo della vita che osservavo, attimo dopo attimo, stupore dopo stupore, stagione dopo stagione, i millenni che solcavano l’infinito, non c’era nessuna differenza e non ci sarebbe mai stata, lo sapevano le stelle e le maree, gli occhi dei bambini, quelli delle donne, gli sguardi in cui tutto veniva detto senza che le labbra accennassero il minimo movimento, le mani ghiacciate, la morte che scrive, aspetterò la primavera in questo luogo d’incanto, fra le gemme e i sogni di una valle dimenticata.
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