A volte con una bicicletta che gli aveva regalato John Bosco se ne andava per il litorale, di mattina, quando ancora non era troppo caldo, da Torvajanica a Ostia, passava per i cancelli, gli piacevano le forme delle dune e il loro odore, prima che arrivassero i bagnanti, con macchine e gas di scarico, chissà come sarebbe stato vivere lì durante l’inverno, quel tipo di solitudine sembrava più adatta allo scrittore che a lui e poi finiti i cancelli iniziavano chiazze di vegetazione spontanea, con la solita sporcizia lungo i bordi delle strade e le sedie di plastica delle puttane africane, che ogni tanto erano già sedute e lo salutavano con una lunga occhiata pensando che fosse un potenziale cliente o un potenziale guardone e Zito Luvumbo sorrideva e continuava a pedalare.
E poi Ostia, fino alla rotonda e ancora più avanti dove qualcuno gli aveva detto che fra i palazzi rosi dalla salsedine vivevano malavitosi e delinquenti vari e che tra quelle vie i giovani ragazzi del luogo erano dediti allo spaccio di droghe e pensò che la razza umana era la più squallida, l’unica capace di scoprire la propria miseria e fare di tutto per non abbandonarla.
Tristi pensieri nella testa di Zito Luvumbo. Mentre si fermava, ormai stanco, indeciso se arrivare fino al luogo dove era stato ucciso Pasolini, di cui gli avevano consigliato di leggere i libri e vedere i film e Zito Luvumbo decise che era meglio tornare indietro, che per quel giorno lo scorrere delle ruote e quello della mente era stato sufficiente e che bisognava riavvolgere il nastro e ricominciare da capo e dire allo scrittore di cominciare a battere le dita sui tasti della macchina da scrivere.
Il Signor McKenzie era seduto davanti alla moglie, a gambe aperte sul divano dell’appartamento che avevano affittato in una località di mare poco distante da dove viveva Zito Luvumbo e la Signora McKenzie si stava toccando con le dita già umide e un dildo di discrete dimensioni era accanto a lei pronto per essere usato e mentre si masturbava raccontava al Signor McKenzie degli uomini che si era scopata quando erano stati lontani, insultandolo ogni tanto per la sua inutilità come marito e amante. Il Signor McKenzie ascoltava e forse, se fosse stato più giovane, si sarebbe tirato fuori il pene e si sarebbe fatto una sega davanti alla moglie o l’avrebbe presa per i capelli, messa a pecora e sbattuta con violenza da dietro e invece rimaneva in silenzio a guardarla, a sentire le sue parole e nel cuore risplendeva quello che poteva essere affetto per quella strana creatura che si era ritrovato accanto e ricordava le notti in cui perdeva coscienza di se stessa, diventando un’altra persona, a volte disperata, altre violenta, una persona con cui il signor Mckenzie si ritrovava vicino, cercando modi e soluzioni per calmarla, per guidarla in quel labirinto psicotico di cui nessuno dei due conosceva l’uscita. E c’erano stati dei rari momenti di calma e anche di amore da parte della signora McKenzie, quando guardavano film o parlavano d’arte e lei gli prendeva la mano e poggiava la testa nell’incavo della sua spalla. Il tempo non era mai stato un nostro alleato, pensò il signor McKenzie, poi prese la macchina fotografica e iniziò a scattare foto alla moglie. Mentre lei cambiava posizione, offrendogli tra un’umiliazione verbale e l’altra, il suo invitante posteriore.
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