domenica 22 dicembre 2024

ZetaElle #19

 C’erano tronchi di alberi piantati nella sabbia, ormai sbiancati dal sole, sui quali, la sera, venivano legate delle bandiere con il simbolo dei pirati e alcune barche si avvicinavano dal mare e scaricavano delle casse piene di oppio, alcolici e panetti di hashish e poi sarebbero stati accesi i fuochi, la festa sarebbe cominciata, con le danze, la musica e le orge sotto i riflessi della luce lunare.

I profili di altre isole all’orizzonte, linee azzurrine frastagliate fra cielo e mare e un piccolo porto disegnato su un promontorio, con i suoi locali fumosi e le sagome delle case colorate e le vecchie stanze da affittare durante l’estate, fino a quando fosse arrivato l’autunno e sulle colline sarebbe iniziata la vendemmia.

Zito Luvumbo, senza neanche sapere come esserci arrivato, sedeva nell’ombra di arbusti cresciuti sul limitare della sabbia, guardava il mare e provava a chiedersi cosa ne fosse stato del tempo vissuto, di quello rimasto intrappolato nei percorsi ripetuti delle abitudini, di quello improvvisamente liberato da una crisi, da un terremoto emotivo, da un’errore commesso, dalle rivelazioni di un sogno dimenticato.

C’era una densità di parole poetiche nelle pagine dello scrittore a cui sembrava mancare una controparte logica e razionale, i dialoghi erano inesistenti perché non c’erano più personaggi che avessero voglia di parlare, si formavano così estenuanti monologhi interiori, forsennate descrizioni di scenari psichici, a volte alterati dall’uso di sostanze, altre così struggenti da fare male.

Il lento rollio delle onde e i corpi in movimento, poi quelli che Zito Luvumbo aveva visto venire a galla dopo un naufragio, dopo un’ennesima tragedia nel mare, qualcuno aveva lasciato una corona di fiori sulla sabbia, qualcuno aveva recitato una preghiera nella propria lingua, Zito Luvumbo sapeva che la morte conosceva il nome di tutti noi e che i giorni che continuavano ad arrivare non erano altro che un’illusione di suoni e colori sconosciuti, di vaghe forme cantate, di baci e carezze assopite, nel caldo di una stanza piena di polvere e ricordi, una stanza nella quale riposava e le tende alle finestre diventavano, in alcuni momenti, vele trascinate dal vento verso un orizzonte lontano, un’altra linea che il destino tracciava al di fuori di noi, delle nostri mani, nel fugace desiderio di essere raggiunto o di scomparire fra i sospiri di un oppiaceo oblio.


martedì 17 dicembre 2024

ZetaElle #18

 Costruivamo capanne sulla spiaggia con tronchi e rami e con quello che il mare portava con sé da terre lontane. Eravamo giovani e ridevamo e non avevamo bisogno di molto per vivere. E l’estate era un periodo facile per tirare avanti e amare e divertirsi. E avevamo hashish e tabacco e acidi a sufficienza affinché i giorni divenissero luoghi in movimento e la nostra mente li potesse attraversare nello splendore del sole e in quello delle stelle. La notte accendevamo dei fuochi e parlavamo e suonavamo e cantavamo e gli obblighi del lavoro e di ogni responsabilità non ci avevano ancora fatto prigionieri e ci guardavamo e ci riconoscevamo, senza sapere che è proprio il presente il tempo della giovinezza, perché dopo sarà l’accumularsi dei ricordi a crescere come una presenza nel cuore, a cui guardare nel crepuscolo degli anni, quando il nostro scorrere diventa ormai inarrestabile e la morte appare come il profilo di un’isola misteriosa all’orizzonte, sulla quale, un giorno, approderemo.

Era una vita da pirati e da vagabondi, raccattavamo cibo nei piccoli paesi lungo la costa o lo rubavamo, non che avesse realmente importanza, fumavamo e scopavamo, alcuni di noi vivevano in piccole grotte, le ragazze danzavano e ridevano e i loro corpi magici fluttuavano fra i colori di fragranti nudità e sognavamo e inventavamo storie, la preferita era quella di una società diversa, ugualitaria, libera, sorridente. Guardavamo il mare, guardavamo il cielo, guardavamo il sole, guardavamo le stelle.

Zito Luvumbo era di nuovo un ragazzo e come gli altri faceva esperienze e scopriva parti di sé stesso. E i libri dalle pagine strappate e l’ombra dei teli tirati fra i tronchi dei pini marittimi e quegli attimi interminabili come le scintille sulle onde. E l’amore e poi quello che sarà solo il suo ricordo. Quando le tue cicatrici si saranno chiuse e la malinconia di quello che è stato e non potrà più essere ti accompagnerà ovunque, come un’amante silenziosa, come un’ombra di quieta  solitudine, mentre osservi in disparte le onde arrivare e il mondo che ti accoglie prima di voltarti per osservare il profilo di un’isola nel vuoto che si apre al di là dell’abisso.


sabato 14 dicembre 2024

ZetaElle #17

 Pezzi di specchi appoggiati alle rovine di un muro in cui guardare i propri volti affamati e sporchi e radersi in una mattina di apparente normalità, dopo un ennesimo bombardamento notturno che non aveva lasciato vittime ma solo altre macerie. E macerie di macerie. Una frantumazione costante di quanto costruito, un sentiero fantasma che si snodava fra edifici sventrati, non c’era più niente di riconoscibile intorno, una nuova città famelica e mostruosa era sorta fra i miraggi di un’architettura apocalittica, file di uomini e donne davanti alle poche fonti di acqua rimasta, il tanfo della morte era ovunque, quello dei corpi decomposti, il sole era alto nel cielo, splendidamente azzurro.

Al risveglio Zito Luvumbo guardava il mare, poi le sue mani color ebano, poi camminava sulla spiaggia, la Feniglia si allungava per chilometri (come ci era arrivato? Si domandava lo scrittore mentre rileggeva questo paragrafo), poi si riposava all’ombra dei pini marittimi, circondato dal suono vibrante e continuo delle cicale accaldate, osservava la vita e quando era stanco chiudeva gli occhi e osserva la vita dentro di sé.

Le spiagge, le vacanze, gli esodi di turisti e profughi, le migrazioni, le piste nel deserto, le carovane, gli accampamenti.

Zito Luvumbo intravedeva oasi lungo i tremolanti bordi di pomeriggi lontani, attraverso il riverbero del calore della sabbia, infuocata dal sole. Poi miraggi di antiche città nelle quali avrebbe voluto vivere. Un sorso d’acqua, un piccolo bicchiere di vetro riempito di tè alla menta, la quiete solitaria all’interno di una tenda, di una capanna costruita con rami spezzati di alberi venuti dall’oceano.

Lo scrittore era calmo e guardava il piatto orizzonte. E forse oltre di esso. L’alba assaporata da una terrazza di una casa sul mare (la stessa in cui abitava Zito Luvumbo? Si chiedeva una voce nella sua testa). I cicli del tempo. Creazione e distruzione. Le maree dei ricordi. Altri giorni in cui ti lasciavi andare senza troppi pensieri. Ancore mentali che venivano sollevate. Gocciolanti di intuizioni, di perle lucide sul riflesso del mare. Le scie bianche e le isole inesplorate che affioravano dall’abisso tumultuoso della psiche. Fili di candida incoscienza, un innocuo sorriso, ogni domanda travestita d’innocenza e le foglie sugli alberi che danzano in un mattino d’estate, quando tutto sembra ancora possibile, in attesa che la rugiada diventi il fugace riflesso del nostro risveglio.


sabato 7 dicembre 2024

ZetaElle #16

 Appartamenti notturni di cui possediamo la chiave per entrare, stanze vuote e ingombre di ricordi infantili, simboli fallici che vengono spezzati e poi silenzio e telefonate che speravo non sarebbero più arrivate. Lo scrittore aspettava di rimettersi in cammino, senza meta e soprattutto senza più nessuna malsana idea di voler ritornare. Ci pensava sempre la notte a creare quello che esisteva al suo interno e oltre di esso. I sogni rimodellavano in un ordine diverso e casuale le nostre esistenze e l’energia fluiva e si disperdeva e le fantasie erotiche apparivano solo come stupide e inutili rappresentazioni adolescenziali, te la ricordi ancora quella fremente trepidazione giovanile di farsi una sega? Chiedeva lo scrittore a sé stesso. Eppure in quel teatro panico e sensuale avevano preso forma vizi e perversioni e del puro atto sessuale poco era rimasto, travolto e trasfigurato dal pandemonio pornografico fino a quando ogni possibilità della libido fosse stata omologata in un canale di  fruizione onanistica e per questo ripetitiva e ossessiva, diventando consumo e dipendenza  e nulla più.

Zito Luvumbo leggeva libri di poesia in riva al mare o su una sdraio sotto un ulivo, in un’oasi mentale nella quale era fuggito, con i contorni di isole allungate sull’orizzonte, profili azzurrini d’aria che la terra con i suoi limiti sembrava solo profanare e piccoli giardini con alberi di arance e limoni e cespugli di rosmarino lungo pendii sorretti da grossi massi lunari. E poi le passeggiate e la voce del mare e gli echi delle estati passate e di quando anche lui era stato un ragazzo e poi il dolore di ogni amore finito, di ogni separazione e con esso un’intima necessità di essere altro da sé. Tutte le nuove identità che gli avevano dato o che lui stesso aveva costruito, perché la fuga divenisse un modo per difendersi e svanire, oltre l’apparenza di decisioni sempre mutevoli e forse neanche mai prese. Zito Luvumbo e le sue storie ancora da raccontare, i presagi di un destino differente, le ombre di qualcuno che si allontana da te, toccando con le sue dita lidi lontani, una luce che tremola nel buio, perché anche noi siamo tenuti a passare e a svanire, così come ogni onda che vediamo arrivare e che ogni orma lasciata un giorno cancellerà.  


mercoledì 4 dicembre 2024

ZetaElle #15

 Lo spirito di Zito Luvumbo, alzato e trasportato in aria, nel cielo - Visioni del mare e di isole, di derive e approdi, un mare calmo, non come quello attraverso il quale era arrivato in Italia, un mare tranquillo, come fosse quello interiore, durante i periodi di meditazione - Una luce tenue, quella dell’alba o del tramonto, un tempo sospeso dove le uniche voci ancora presenti erano quelle della memoria e i suoni apparivano e scomparivano in una amniotica attesa, il divenire era il fluire e non c’era distinzione fra l’oggi e il domani, perché il passato era il presente e noi vivi e poi svaniti in un luogo che nell’attimo successivo non sarebbe più esistito.

E Zito Luvumbo aveva ancora negli occhi i cadaveri dei naufragati, dei barconi rovesciati, dei corpi che riaffioravano senza vita e poi al loro posto arrivavano immagini bibliche di migliaia e migliaia di pesci morti, uccisi dal caldo e dalla presenza di alghe assassine, argentee e poi putride presenze sulla superficie dell’acqua e così di quegli uomini e di quelle donne affogate non c’era più traccia e le spiagge erano diventate deserte e le orme di chi ci era passato erano state cancellate dai riflussi delle maree. 

E Zito Luvumbo si sentiva come senza peso, senza pensieri, senza forma e sostanza e pensava in sequenze incomplete, lontane dal linguaggio e forse aveva  trovato la libertà, quella che nessuna parola ci ha mai saputo spiegare.

ZetaElle #32

  Sequenze di combattimenti fra le strade e persone in fuga, i rumori in lontananza degli spari e un senso di panico e come una vibrazione n...