I profili di altre isole all’orizzonte, linee azzurrine frastagliate fra cielo e mare e un piccolo porto disegnato su un promontorio, con i suoi locali fumosi e le sagome delle case colorate e le vecchie stanze da affittare durante l’estate, fino a quando fosse arrivato l’autunno e sulle colline sarebbe iniziata la vendemmia.
Zito Luvumbo, senza neanche sapere come esserci arrivato, sedeva nell’ombra di arbusti cresciuti sul limitare della sabbia, guardava il mare e provava a chiedersi cosa ne fosse stato del tempo vissuto, di quello rimasto intrappolato nei percorsi ripetuti delle abitudini, di quello improvvisamente liberato da una crisi, da un terremoto emotivo, da un’errore commesso, dalle rivelazioni di un sogno dimenticato.
C’era una densità di parole poetiche nelle pagine dello scrittore a cui sembrava mancare una controparte logica e razionale, i dialoghi erano inesistenti perché non c’erano più personaggi che avessero voglia di parlare, si formavano così estenuanti monologhi interiori, forsennate descrizioni di scenari psichici, a volte alterati dall’uso di sostanze, altre così struggenti da fare male.
Il lento rollio delle onde e i corpi in movimento, poi quelli che Zito Luvumbo aveva visto venire a galla dopo un naufragio, dopo un’ennesima tragedia nel mare, qualcuno aveva lasciato una corona di fiori sulla sabbia, qualcuno aveva recitato una preghiera nella propria lingua, Zito Luvumbo sapeva che la morte conosceva il nome di tutti noi e che i giorni che continuavano ad arrivare non erano altro che un’illusione di suoni e colori sconosciuti, di vaghe forme cantate, di baci e carezze assopite, nel caldo di una stanza piena di polvere e ricordi, una stanza nella quale riposava e le tende alle finestre diventavano, in alcuni momenti, vele trascinate dal vento verso un orizzonte lontano, un’altra linea che il destino tracciava al di fuori di noi, delle nostri mani, nel fugace desiderio di essere raggiunto o di scomparire fra i sospiri di un oppiaceo oblio.
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