Al risveglio Zito Luvumbo guardava il mare, poi le sue mani color ebano, poi camminava sulla spiaggia, la Feniglia si allungava per chilometri (come ci era arrivato? Si domandava lo scrittore mentre rileggeva questo paragrafo), poi si riposava all’ombra dei pini marittimi, circondato dal suono vibrante e continuo delle cicale accaldate, osservava la vita e quando era stanco chiudeva gli occhi e osserva la vita dentro di sé.
Le spiagge, le vacanze, gli esodi di turisti e profughi, le migrazioni, le piste nel deserto, le carovane, gli accampamenti.
Zito Luvumbo intravedeva oasi lungo i tremolanti bordi di pomeriggi lontani, attraverso il riverbero del calore della sabbia, infuocata dal sole. Poi miraggi di antiche città nelle quali avrebbe voluto vivere. Un sorso d’acqua, un piccolo bicchiere di vetro riempito di tè alla menta, la quiete solitaria all’interno di una tenda, di una capanna costruita con rami spezzati di alberi venuti dall’oceano.
Lo scrittore era calmo e guardava il piatto orizzonte. E forse oltre di esso. L’alba assaporata da una terrazza di una casa sul mare (la stessa in cui abitava Zito Luvumbo? Si chiedeva una voce nella sua testa). I cicli del tempo. Creazione e distruzione. Le maree dei ricordi. Altri giorni in cui ti lasciavi andare senza troppi pensieri. Ancore mentali che venivano sollevate. Gocciolanti di intuizioni, di perle lucide sul riflesso del mare. Le scie bianche e le isole inesplorate che affioravano dall’abisso tumultuoso della psiche. Fili di candida incoscienza, un innocuo sorriso, ogni domanda travestita d’innocenza e le foglie sugli alberi che danzano in un mattino d’estate, quando tutto sembra ancora possibile, in attesa che la rugiada diventi il fugace riflesso del nostro risveglio.
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