Lei
parlava al telefono mentre ero sdraiato sul letto, guardando fuori dalle
finestre della stanza di un albergo, il cielo era grigio e io mi stavo
abituando, settimana dopo settimana, a questo colore, lo trovavo stranamente
familiare e capace di dare spazio alle architetture della mia mente. Creavo
strutture geometriche da riempire con parole e note, le fotografie in bianco e
nero catturavano le forme metropolitane, le modificavano nelle improvvise
intuizioni dei miei occhi, assemblavo linee e angoli, mi immergevo nelle
profondità delle ombre, lasciavo che la luce rimodellasse in visioni
apocalittiche le menzogne del futuro degli edifici. I libri di design sistemati
su un tavolo di plastica bianco, gli appunti, i quaderni nella borsa. Il flusso
delle macchine, in basso, tra le strade di una ennesima città onirica, lei
continuava a parlare e si accendeva una sigaretta, chiudevo gli occhi e
lasciavo le immagini mentali libere di scorrere, ricordi, apparizioni fugaci di
volti dimenticati, ancora gli effetti dell’ultima pasticca, una sensazione di
leggerezza, i pensieri come basse nubi su paesaggi in continuo mutamento,
nessun significato, nessuna logica, solo libere associazioni. La telefonata era
finita e lei si era stesa accanto a me, mi accarezzava il petto, giocando con i
miei capezzoli, il cazzo iniziò a diventarmi duro e le sue labbra scivolarono
sul mio petto, poi sull’addome, fino a prendere la cappella nella bocca, le
piaceva succhiarla, la mattina o quando ne aveva voglia. Chiusi gli occhi,
sembrava di essere trascinati in un mondo umido e sfuggente, ci si muoveva
senza attrito, senza peso, una serie di rumori marini e la spuma delle onde in
ciclici e dolci vortici. Seduti in una macchina, gli occhiali scuri, fuori dai
finestrini scivolavano i corpi delle persone, mutazioni nello sguardo e codici
genetici riscritti in laboratori clandestini, gli uomini in camice bianco, le
sostanze che venivano preparate, le combinazioni chimiche, emozioni sintetiche,
alterazioni sensoriali sul punto di esplodere, modificazioni fluide della
realtà, serie ininterrotte di edifici industriali mentre le figure umane
diminuivano, ampi parcheggi, fabbriche abbandonate, le reti metalliche, gli
spacciatori agli angoli delle strade, le prime gocce di pioggia. La macchina
che si ferma, la porta rossa, anonima e piena di scritte, un abbraccio oltre
l’entrata, un sorriso, camminiamo verso la sala per il mixaggio, Khan è davanti
al computer, lavorando alle ultime tracce, le tazze di tè, mi siedo su un
divano e parlo con Mike, una nuova pasticca sotto la lingua, gli mostro alcune
delle mie ultime fotografie, tutto è rallentato, confortevole e in penombra, i
primi effetti, lei che discute con Khan, gli strumenti musicali appoggiati per
terra, sui muri, ovunque, i tappeti e i cuscini, le apparecchiature
elettroniche, i vetri divisori, la musica finalmente arriva, inonda e colma la
stanza, ci fermiamo tutti quanti ad osservarla, variazioni ritmiche come
pulsazioni luminose, lei mi prende per mano, i battiti digitali che si
espandono, calde sensazioni di piacere, guardo una pianta in un vaso, le foglie
cominciano a brillare, sempre più luminose, c’era un dio ovunque, un paradiso e
un inferno, l’estasi di un solo attimo di pura consapevolezza, l’assoluta gioia
di sapere che nulla era vero, di essere vivi senza che nessuno ce ne avesse
chiesto il motivo.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
ZetaElle #28
Tornato in città Zito Luvumbo si era ritrovato pieno di cose da fare e organizzare. Simulazioni di guerriglia urbane per le strade dei qua...
-
I dolori iniziano lunedì mattina, al lavoro. Durante la lezione mi tocco il lato destro della bocca e sento crescere una...
-
Ce l’hai una sigaretta? - chiede il tossico. Non fumo, mi dispiace – rispondo. Allora che me la vai a cercare? No, non ho quest...
-
Per capire il significato di quella perdita dovresti passare almeno cinque o sei anni con una stessa persona e vederla tutti i giorn...
Nessun commento:
Posta un commento