L’incontro con Hector Mosca avvenne all’interno di una stanza dell’ambasciata messicana, la giornata era calda, eravamo verso la metà di giugno e Zito Luvumbo si diresse verso Villa Torlonia, accanto alla quale c’era il palazzo dove avrebbe incontrato Hector Mosca. Le sostanze stupefacenti, in questo caso cocaina e eroina, seguivano i loro tragitti, misteriosi e sconosciuti alla maggior parte delle persone. C’era sempre il bisogno di tracciare nuove mappe e nuovi percorsi, in una continua trasformazione del mondo geografico in una serie di passaggi attraverso i quali far arrivare i carichi. Coperture diplomatiche e collaborazioni internazionali. Anche John Bosco partecipò all’incontro, perché una figura religiosa era sempre incline ad offrire un ottimo diversivo, un orizzonte sacro contro il quale la morale si appiattiva fino a diventare una linea di demarcazione lontana e irraggiungibile e quindi i loro atti sarebbe stati protetti e il significato delle loro azioni al sicuro da qualsiasi giudizio.
L’aria condizionata era in funzione nella stanza in cui si incontrarono e una donna portò del caffè e attraverso i vetri la luce del giorno filtrava mentre erano seduti su comode poltrone di pelle e Zito Luvumbo pensò a tutti gli uffici in cui si era dovuto sedere ad ascoltare e pensò che le parole non erano altro che virus letali in azione, capaci di distruggere vite umane e di moltiplicarsi all’infinito. Victor Mosca bisbigliava, in una strana cantilena da insetto indifferente e le sue sembianze avevano qualcosa di febbrile reticenza verso il prossimo, come se si stesse trasformando nella sua prossima forma, quella di uomo devoto al silenzio e all’abisso di significati che esso racchiudeva.
Furono presi accordi, anche se nessun documento venne firmato. Si alternavano nella mente di Zito Luvumbo le pulsanti linee di un disegno molto dettagliato, una cartografia tridimensionale di paesi ancora sconosciuti, di una nuova ridistribuzioni di confini e frontiere, tanto che si chiese se non avessero aggiunto qualche sostanza al caffè che aveva bevuto. Nella stanza, ad un punto imprecisato della giornata, entrò anche il dottor Woyzcek, quasi un’apparizione trascendentale chiamata da forze invisibili, rimase per pochi minuti, raccontando una sua esperienza avuta con l’ayahuasca e ricordando ai presenti la necessità di compiere un periodo di ritiro , di almeno un paio di settimane, in qualche centro cerimoniale della foresta peruviana, per alleggerire il corpo e la mente dai carichi superflui delle ossessioni lavorative, consumistiche e capitalistiche - Un ritorno all’origine di noi stessi, uno spogliarsi degli strati di comportamenti compulsivi che non ci appartengono, un risollevarsi verso la purezza dimenticata all’essere, nella notte, nelle visioni, nei canti di un passato indecifrabile eppure così vicino alla comprensione del cuore di ognuno di noi. È quando inaridiamo dentro, disse il dottor Woyzcek, che dobbiamo domandarci cosa stiamo facendo e dove sia finita la sorgente della nostra energia interiore.
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