Il
rumore leggero della pioggia e le gocce che bagnano il vetro della finestra, la
stanza bianca e i suoi segreti, ho attraversato un centro commerciale nel
silenzio della notte. Il tatuaggio di un pavone sulla spalla di una donna dai
capelli viola, inginocchiato ai suoi piedi mentre le baciavo le scarpe dal
tacco alto, legato su un letto rosso, i polsi e le caviglie incatenate,
l’elettricità viola che pungeva il mio corpo, il ricordo improvviso di una
vecchia sensazione, quando mi tatuarono la gamba e l’ago produceva quello
stesso identico dolore misto a piacere. I suoi sguardi improvvisi, brevi, come
se fosse intimidita dalla mia presenza, dai miei occhi, era strano visto i
ruoli che avevamo, quelle stanze oscure mi facevano sentire a mio agio, non
avevo nessuna paura, nessun timore, mi sentivo vivo in una maniera così
profonda, non sarei mai riuscito a spiegarlo ad altri, come tante cose, del
resto. L’ombra del mio corpo schiacciata su un pavimento, il tempo svaniva, le
immagini delle persone che danzavano nei bagliori elettronici, ipnotici e
ritmici, i movimenti rallentavano, chiudevo gli occhi, ero ancora lì, il culo delle
ragazze che sfiorava la mia mano, erezioni nelle mutande, erano così vicine le
loro schiene e i loro capelli, i colli da baciare, tenevo le mie distanze, fino
al punto in cui avrei potuto sentire l’odore della loro pelle.
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