Un minuscolo proiettore portatile con dentro una microscopica pellicola avvolgibile - piccole immagini pornografiche prendevano vita su una parete di una casa familiare con mia madre e mia sorella in silenzio da qualche parte ad aspettare notizie di disastri dimenticati e qualcuno aveva rubato le mie fotografie e aveva lasciato cornici vuote da riempire con i resti di vite perdute - iconografie di santi e martiri e il fotografo che catturava fuggenti e fulgidi attimi di luce, prima che il sole si vada a nascondere dietro le cime di montagne azzurrine, gli suggeriva lo scrittore e lenzuola che durante la notte si riavvolgevano su se stesse, come nastri di musicassette abbandonate in scatole di scarpe polverose e il corpo inquieto di Susana, all’alba, che vibrava di caldi piaceri onirici e proibiti - il sangue e la luna e antichi rituali in valli nebbiose e umide e la polizia del subconscio che ricercava i superstiti delle moderne rivoluzioni spirituali - era lo spazio interiore quello in cui avremmo continuato a essere liberi e puri, al di fuori di esso non esistevano altro che catene e sbarre e prigioni invisibili - comportamenti, abitudini, dipendenze, partite a scacchi con la morte in pomeriggi alcolici e annoiati - una Alcatraz del cuore, dei sentimenti, dei pensieri - la quiete degli alberi mi sussurrava il punto di contatto fra dimensioni e direzioni diverse che si appartenevano e completavano, un gioco di specchi, una casa di riflessi, un susseguirsi di istanti dilatati in visioni parallele, i lenti respiri prima dell’aurora, quando ogni illusione si lasciava sedurre, smarrita e indifesa nell’esistenza e in ogni nome con cui, insolenti, l’avremmo chiamata.
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