Era un cazzo di spazio aperto, quasi deserto, in degrado, tipo ok corral metropolitano ed era quasi mezzogiorno (high noon) e non c’erano manco i cani in giro a quest’ora, solo i gatti che si riposavano sotto le panche e pochi studenti universitari (c’era una facoltà di non so che, da qualche parte lì intorno) che festeggiavano una laurea che non gli sarebbe servita a un cazzo. Una vecchia scorreggia di professore blaterava di arti e artisti sotto un porticato che puzzava di piscio, con una infinità di murales e graffiti sulle pareti. E mi ricordavo del Villaggio Globale, di quando ero un ragazzo e io e i miei amici ci venivamo a comprare il fumo dai marocchini e alcune volte, quando c’era un concerto, entravamo nel centro sociale e vagavamo belli fatti fra le sale misteriose. Adesso c’era polvere nell’enorme piazzale davanti al Villaggio e un senso sconfinato di desolazione urbana e poco distante, in una palazzina che stava cadendo a pezzi, c’era una comunità di rifugiati afghani, probabilmente più dediti all’oppio, pensava lo scrittore, che ad altre cose, ma chi poteva dargli torto, avrei fatto lo stesso se mi fossi trovato al loro posto. E poi gli echi di risate smarrite e l’agonia di un presente che stava morendo in una aridità umana che non sapeva più come fiorire, forse erano le parole ad uccidere i semi delle nostre possibilità, erano le parole banali che stavano uccidendo qualsiasi auspicabile desiderio di continuare il ciclo di questa esistenza e di quella successiva. Se ci fosse stato solo il silenzio non ci sarebbero state più incomprensioni e ci saremmo limitati a scopare come animali, imponendoci di non procreare, limitandoci al puro piacere, espandendolo in forme di orgasmo orgiastico organizzato, piccole comunità edonistiche dedite al fottere, nell’oro della luce e nell’etereo ed eterno susseguirsi di una eiaculazione dopo l’altra. Volevo una birra ma l’unico bar aperto aveva prezzi proibitivi e una clientela, ai tavolini fuori, la cui sola presenza mi dava sui coglioni. Così mi sono trovato un angolo, una sedia all’ombra di un muro e mi sono messo a scrivere. Un arabo mi sorride da dietro una colonna, gli faccio un cenno di intesa con gli occhi. Un giorno finalmente scorderemo da dove siamo venuti senza avere più nessuno intorno a dirci cosa fare, senza più religioni, imperi, dinastie, governi che intanto tutto è destinato a crollare, a scomparire. Un gatto mi si strofina contro la gamba, lo accarezzo, poi guardo il cielo e non c’è nulla sotto di esso che valga come il tuo odore, la mattina, quando ti volti per rapirmi ancora dentro di te, nel tuo corpo, fra i resti dei sogni e dei ricordi, in una carezza, uno schiaffo, in un bacio che sappia farmi dimenticare come sono arrivato fino a qui.
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