Avevo passato quattro giorni in montagna, a fare passeggiate, a camminare tra gli alberi, perso in colori e suoni, un meraviglioso verde avvolgente, la calma e l’eleganza delle foglie che vibravano nella luce del sole, seduto accanto ad una roccia, la schiena poggiata contro la corteccia di un albero, tutto sembrava così vero, reale. Poi di nuovo la città, i quartieri, le strade e i rumori, al posto dei ruscelli di montagna e della loro scrosciante voce c’erano le macchine, i suoni striduli e acuti, il rombare fastidioso dei motori, le persone, ovunque e intorno, i loro discorsi, i loro odori, la loro essenza: nauseabondi. Mantenevo una distanza nel cuore, c’erano ancora le foglie e le radici, le improvvise aperture sulla cima di una montagna, la sensazione del volo, ampie visuali dall’alto e ora prospettive strozzate, perversi giochi di luce e aria, nero e grigio, una breve passeggiata in una villa, poi un aperitivo al Pigneto, avevano anche risistemato la zona pedonale, con qualche panchina e una nuova pavimentazione e sempre le solite persone sedute ai tavolini, le mode che si diffondevano, le barbe lunghe, i vestiti già omologati nel maniacale desiderio di essere originali, persone che cagano stronzate dalla bocca e poi la rinfrescano con un po’ di birra, deve essere faticoso farle uscire tutte insieme quelle merdate e più sono grosse e più c’è il rischio di soffocare, ma questi parlavano a ruota libera, ce ne avevano di roba da sputare fuori e quando non era il senso (se mai ce fosse stato uno) di quello che dicevano a infastidirmi erano i toni e i modi di parlare, tra gli uomini si accentuavano gli atteggiamenti froceschi con effetti indigesti su chi si trovava nei paraggi, era solo una recita venuta male, un brutto scherzo e allora tanto valeva alzarsi e farsi altri due passi e poco più in là c’erano i ragazzi africani, sbracati sulle panchine nuove, con le piccole aiuole accanto, che qualcuno già aveva fatto diventare un cesso, buttandoci in mezzo bottiglie vuote e sacchetti di patatine non ancora finiti, i ragazzi africani attendevano, un’occhiata d’intesa, poi si avvicinavano, c’era uno scambio e ognuno per la sua strada, ogni tanto lo facevo ancora questo gioco, giusto per non perdere l’abitudine e di giorno la paranoia della polizia neanche ce l’avevo più, se il flusso era quello giusto non c’era niente da temere, poi scendeva la sera e sarebbe arrivata la notte e i sogni che si accompagnano agli incubi e la gioia al nostro dolore, ci puniamo per non essere abbastanza forti, i rami si spezzano, d’inverno, sotto il peso della neve, a primavera le gemme tornano a splendere, pensavi di essere morto eppure la vita continuava a scorrere dentro di te.
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ZetaElle #32
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