Erano iniziati i commissariamenti, le intercettazioni telefoniche e gli interrogatori avevano portato altra merda a galla, ma intono a me, colleghi e colleghe continuavano a fare finta di niente, mi sarebbe piaciuta una presa di posizione, non parlo di coscienza, in quanto necessitava di una dimensione morale troppo vasta per i sorci che vedevo nei corridoi, però una decisione, in quanto esseri viventi, l’avrebbero pure potuta prendere, ma niente, continuavo ad illudermi troppo, loro si limitavano a rosicchiare i resti che gli venivano dati, si vede che erano sufficienti a soddisfarli, avere lo stomaco pieno e pensare poco, soprattutto non farsi domande sulla provenienza dei soldi che li facevano mangiare, me compreso.
Il sistema l’avevo scoperto subito, da quando c’ero entrato dentro, non ne avevo avuto immediatamente le prove concrete ma bastavano le mie intuizioni, le brutte sensazioni quando questa gente mi si avvicinava, non erano come me e non lo sarebbero mai stati. Per fortuna.
Nell’ultima riunione era venuta una delle coordinatrici a parlarci della situazione - avevo capito, con il tempo, che più erano i titoli che uno si metteva, presidente, responsabile, coordinatore e più erano vaghe le cose che uno faceva, perché dietro un titolo ci si immagina che ci sia un sacco di lavoro e invece quelle parole andavano solo a giustificare qualcosa di nebuloso, però ci si faceva grande la gente quando accanto al proprio nome c’erano le altre parole: presidente, coordinatore, responsabile.
I presidenti l’avevano messi prima in galera e poi ai domiciliari, mi era sembrato giusto chiedere spiegazioni alla mia coordinatrice sul perché di questo duro intervento della legge. I due presidenti arrestati me li ero visti intorno per molto tempo, mentre camminavano nei corridoi, ridendo, parlando al telefono, un’idea me l’ero fatta all’epoca di quello che facevano, poi mi sono letto le intercettazioni telefoniche ed è vero che la realtà finisce sempre per superare, in orrore, la fantasia.
I dialoghi erano molto spicci, spesso in dialetto romano, i contenuti riguardavano i soldi. Basta. Questo era stato il loro lavoro mentre io me ne stavo in una stanza senza finestre ad insegnare italiano anche a venti persone insieme. Questi tipi si preoccupavano solo di come mettere in circolo il denaro, droga incontrollabile, se poi lo facessero per loro, per gli amici e la famiglia, per paura o per avidità, poco me ne fregava, quei soldi avrebbero dovuto avere un altro utilizzo e non era quello che loro ne avevano fatto.
E insomma gli chiedo queste cose alla mia coordinatrice, qualche spiegazione e lei, come al solito, ci gira intorno, però la vedo che non è tranquilla e allora continuo sullo stesso tono, con le stesse domande, lei si innervosisce, gioca qualcuna delle sue vecchie carte, ma i trucchetti hanno finito di mettermi paura o intimorirmi e allora continuo a chiederle, ma questi qui perché stanno in galera? E qualche risposta inizia a uscire fuori, nell’imbarazzo generale, eravamo una dozzina di persone, il dialogo non era molto vivo, visto che quasi tutti rimanevano in silenzio, ci serve un po’ di spettacolo, bisogna scaldarlo l’ambiente e allora mi sono dato da fare e più facevo domande scomode, più la coordinatrice non sapeva cosa rispondere, poi se ne è uscita con qualche frase ad effetto, del tipo, dobbiamo fare quadrato, siamo una squadra, bisogna camminare a testa alta, ci voleva tirare su il morale ricordandoci dell’eccellenza del nostro e del suo lavoro, allora a quel punto ho rallentato un attimo, non volevo finire tutte le battute, me le volevo tenere per il prossimo incontro, la prossima messinscena, anche perché parlare di eccellenza quando si è costretti ad usare come classe di italiano uno spazio ricavato in un magazzino interrato senza ricambio d’aria e luce naturale ti fa un po’ riflettere sulla scala di valori che gli altri adottano per giudicare il proprio lavoro.
Qualche risata al pubblico presente l’ho strappata, verso la fine, ma anche qualche sguardo di dubbio e altri non proprio amichevoli, il resto della compagnia era un po’ scarsa, i ruoli migliori li interpretavano lungo i corridoi degli uffici, nelle riunioni sicure, davanti ad un caffè, l’improvvisazione gli riusciva male, non c’erano abituati, sapevano solo ripetere sempre le stesse frasi, non si può volere tutto, ma avrebbero imparato.
Me ne sono tornato a casa in silenzio, gli altri continuavano le loro chiacchiere fuori dall’ufficio, come avevano sempre fatto, senza concludere nulla, lamentandosi l’uno con l’altro, come se servisse a qualcosa. Arrivati ad un certo punto non si poteva tornare indietro. Bisognava andare avanti. Possibilmente da soli.
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