lunedì 4 gennaio 2016

fotografia numero cinque

Le teste dei ragazzi erano rivolte verso l’alto, i corpi scuriti dal sole, alcuni sorrisi, bocche aperte, fischi e grida, il rumore dell’acqua che scorreva, l’eco delle bombe, ancora presente, nei ricordi, nelle grida notturne, un ponte di ferro, le linee di un edificio di cemento grigio, un corpo, un volo nel vuoto, le braccia allargate, sospeso nell’aria, una panoramica di trecentosessanta gradi intorno alla sua figura plastica, un’ombra proiettata nel fiume, gli applausi, il silenzio, i giorni passarono, oscurandosi uno dopo l’altro.

Le macerie di una libreria e lei seduta sui resti delle pietre, delle mura, del tetto, delle colonne, un caffè bevuto su un divano, tra due uomini da intervistare, le sigarette accese, le parole che si bloccavano nella gola, incapaci di uscire fuori, qualcuno leggeva ancora beckett, aspettando di godere dietro il sipario tirato di un piccolo teatro di un quartiere periferico, le mani dentro le mutandine di una ragazza, qualcosa di umido e morbido, un sospiro, il soffio delle labbra, una candela che si spegne, i baci come frasi mai scritte.

Una bicicletta buttata per terra, una striscia di sangue, curva, sull’asfalto.


Il corpo di marmo di una donna, immobile, addormentato, in penombra, la luce, morbida, si posa sulla sua pelle di pietra, il seno nudo che sfioro con le mie dita di sabbia, i suoi piedi, esposti, dove strofino il mio cazzo, eretto, freddo e duro come metallo, oscillazioni del ventre, preghiere lontane, lamenti e pianti, pozze scure di silenzio, intorno, un nome scolpito e quasi cancellato dal tempo, le voci sottili, che spuntano dal terreno, risalendo lungo le gambe, sussurrando fantasie alla base dei miei coglioni gonfi, spinte in avanti, scintille azzurrine nel momento dell’orgasmo, lei gira il capo, gli occhi ancora chiusi in un abbraccio di eternità.

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