Avevo
attraversato una delle porte nel quartiere cinese, era di ferro blu, senza
segni o scritte, si trovava in un vicolo laterale della piazza del mercato, me
ne aveva parlato, una volta, uno dei vecchi mentre bevevamo tè verde con fiori
di gelsomino, seduti su un tappeto di terre lontane, non ricordo quando ne
discutemmo ma la porta era lì e io ci ero entrato.
E
camminavo di nuovo per le strade, in un tempo sospeso, non potevo dire con
precisione la mia età, avevo la barba e i capelli abbastanza lunghi e qualcosa
nella mia vita era in un momento di stasi, nessun lavoro e le giornate
iniziavano con sedute di autocontrollo davanti a schermi lampeggianti, le
mattine erano caotiche e piene di impulsi incontrollabili, a volte ero
rinchiuso in una stanza e costruivo sceneggiature mentali da consumarsi nel
buio o nell’attesa della notte. C’erano ombre lontane di persone e parole
disperse come polvere sotto un tappeto, donne orientali dagli occhi obliqui e
dalle voci dolci, una stazione nell’oscurità e l’attesa di un treno, la nebbia
che scendeva sopra i binari, le luci dei lampioni si trasformavano in aloni
giallastri, occhi alieni, enormi, fatti di fumo, che ti seguivano, ti scrutavano
- ci svegliammo all’alba, protetti da coperte di sogni, era così tanto che non
parlavo dell’amore, si aprono fiori di loto sull’acqua stantia di una pozza
putrida, silenzio e riflessi di macabre fiaccole, il ghigno del teschio e il
gracidare ipnotico di un rospo morente, le lacrime lungo le guance di marmo e
seta di una fanciulla immobile, la pressione delle mie labbra sui tuoi capelli,
ho sbagliato, ascoltando la pioggia cadere fuori dalla stanza e immaginandomi
abbracciato al tuo corpo, il calore della giovinezza, le rughe intorno agli
occhi, ardono i tramonti oltre le alte torri, i canti arabi, uscendo dalla
porta di metallo blu la strada del vicolo è lucida, passano persone con
ombrelli aperti, il cielo è viola, non pensare a nessuna direzione, gli occhi
di un cieco sono calamite di eventi.
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