lunedì 15 maggio 2017

Llanidloes #1


Diarree verbali nel bel mezzo della notte, flussi sonori privi di significato, mi rigiro tra le coperte con un sorriso sulle labbra, il divano mi abbraccia con cuscini di pelle bianca, respiro e mi rifugio in quel luogo, apro e chiudo quella porta. Abbracci e alterazioni, l’emmedi dava illusioni chimiche sul senso dell’amore, poi le solite paure ad attenderti, due giorni perso in una confusione piena di fantasmi. Qualcosa era diventato reale, un nemico da combattere, la strada era fredda e la notte appariva minacciosa, mi ero ritrovato con pochi soldi, qualcuno mi aveva ospitato, giravo per le stradine del paese sempre con gli stessi vestiti, la libreria era un rifugio sicuro, per scrivere e comunicare, tra messaggi e richieste di aiuto, poi precipitare di nuovo nel flusso della vita, dove tutti i pezzi, anche se temevo sempre il contrario, finivano per trovare la loro giusta collocazione.


Non sentivo più nulla battere contro il petto, non c’erano immagini di donne pronte a punirmi e torturarmi, non c’erano echi nella mente. Bisognava seguirle le vie in cui ti ritrovavi, arrivare fino in fondo e vedere cosa ti aspettava. Le ombre degli alberi correvano veloci oltre i fari della machina e Nick era al volante e c’erano sostanze che mi ballavano nello stomaco e un’erba jamaicana che ti faceva piombare in una dimensione sospesa di nebulose incertezze. La musica era alta e rimbalzava tra i sedili e i finestrini, schiacciando i pensieri per poi liberarli in forme misteriose e sconosciute. Le case di mattoni rossi, il viaggio di un uomo attraverso l’Afghanistan, l’acido che aveva assunto, i paesaggi in technicolor. La voce di Beth in una mattina grigia, dentro una stanza piena di libri e dischi, foto e appunti, la moquette per terra e il suo confortevole contatto sotto i piedi, poi questa stessa stanza, in altre angolazioni e illuminazioni, le strisce di buio proiettate sulle pareti, la barba di Fidel che sembrava muoversi e crescere. La poltrona su cui avresti atteso la tua morte, le persone che ti avevano dimenticato, i figli di cui non avevi saputo più niente. Tre mesi passati sulla riva di un fiume, in una capanna, gli abiti logori, avevi deciso che nulla avrebbe avuto più importanza e questa sembrava essere la scelta migliore, le cose che trovavi sul bagnasciuga, le prendevi e le portavi con te, costruivi i tuoi feticci e adoravi le tue divinità. I viaggi in nave, le onde che sputavano spuma in faccia ai marinai, chiuso nella tua cabina, una sigaretta incollata alle labbra. Le chiamate a ogni ora della notte, prendevi le chiavi e uscivi, la macchina nera, i fari che violentavano l’oscurità, le fughe sull’asfalto e i bizzarri incontri, le strane persone che dovevi portare da una parte ad un’altra. Un ombrello giapponese attaccato a un angolo della parete, parlavi di politica con te stesso e spendevi le ore del sonno a giocare a scacchi contro un avversario che aveva il tuo volto, contavi il tempo, dividendolo e moltiplicandolo, eri solo in una gabbia di abitudini che non ti avrebbe salvato, parlavi tra le mura solo per ricordare il suono della tua voce. In una casa di Londra qualcuno aveva iniziato a coltivare erba, file di vasi, spacciatori e assassini tra i suoi contatti, una lettera da scrivere, un amore da ricostruire, il passato stava svanendo, la tua vera vita era in bilico, un corpo che si muoveva sui bordi dei sogni, confini da oltrepassare appena possibile. Prendi un fiore tra le dita, lo osservi brillare, sei tu la luce che illumina questo mondo, sei tu lo splendore di ogni suo singolo respiro.

martedì 9 maggio 2017

Bryn Rhyg #10


Le linee degli oggetti nella cucina o dei volti seduti accanto al tavolo erano fatte di pura luce, contorni splendenti che facevano risaltare le forme e i limiti di tutto quello che potevamo toccare o amare. Vedrai quanto siamo orribili, aveva detto Rebbecca, in un sogno o in una delle serate passate nella sua casa, non avevo capito subito quelle parole, poi il loro significato si era svelato negli attacchi di rabbia di Ken o nei momenti in cui lei perdeva il controllo e risuonavano le grida di ferite ancora aperte, inflitte chissà quando e chissà dove. Le potevo vedere ardere nel suo cuore e scorgerne il riflesso nel mio. Avevamo parlato di letteratura, io e Rebbecca, del suo ultimo romanzo, di Irvine Welsh, del lavoro quotidiano sulle parole. I dialoghi, i personaggi, quel lento e doloroso definire, smussare, trovare il giusto flusso, seguirlo, esprimerlo attraverso il linguaggio. Era così tenero e quasi impaurito il suo sguardo mentre mi parlava ed era una delle prime volte che lo faceva guardandomi negli occhi, di solito tendeva a sfuggirmi, l’avrei voluta stringere fra le braccia e dirle che tutto sarebbe andato bene, che non c’era nulla da temere, che la paura era solo il modo in cui finivamo per infliggerci inutili sofferenze. E prima di andare a dormire Bea mi aveva abbracciato e avevo sentito il suo respiro diventare il mio, lo stesso movimento del petto e dei polmoni ed era così intima e dolce quella vecchia sensazione, quella di tornare a casa, in luogo sicuro e caldo e ho pensato a Maria e a quanto mi mancava tenerla fra le braccia e percepire nella mente e tra le dita la sua essenza e le ultime volte che avevamo dormito insieme, in Germania, non l’avevo più sfiorata e adesso mi domandavo come si potesse fuggire da qualcuno che ti amava, il motivo di quel distacco, il modo in cui avevo deciso una fine senza alcun senso, solo perché diventasse reale la possibilità di un’altra vita.

giovedì 4 maggio 2017

Bryn Rhyg #9



Silenzio. E quello che svelava, ogni volta che la finivamo di parlare. L’aria e le foglie. I versi degli uccelli. Il crepitare dei rami. Gli insetti. La luce era meravigliosa nella mattina e Honor mangiava i suoi cereali seduta accanto a me. I suoi occhi di bambina mi osservavano mentre le leggevo una favola e giocavamo con buffi pupazzetti di plastica. Le risate d’oro e tutto il tempo che alla fine mi ero ripreso e i gemiti durante la notte, gli orgasmi veloci, lo sbattere bagnato degli organi sessuali, le parole sussurrate con voce roca perché gli amanti fumavano troppo e si rincorrevano in una vita che non sembrava avere pause. La lunga pipa metallica, Ken con il cucchiaio in mano mentre scalda la cocaina sul fornello, un liquido biancastro e lattiginoso. Le lunghe boccate, il crack, il fumo che esce piano dalle narici. George mi insegna come fare, ma non è buon maestro, perché il suo volto, al risveglio, sembrava distrutto e invecchiato, qualcosa aveva divorato la sua gioia, qualcosa a cui non aveva più saputo rinunciare, i suoi occhi erano spiritati, la mattina, mentre traballava sulle gambe nel tentativo di tirarsi fuori il cazzo per pisciare. Poi altre pinte sul tavolo, altre sigarette, le canne, emmedi in cristalli, alcune briciole sulla punta della lingua, era così amaro, gli effetti e l’empatia, mi stavo avvicinando, più erano le droghe che assumevo e sperimentavo più mi rendevo contro di quanto non ne avessi bisogno, potevo raggiungere quel benessere semplicemente respirando, liberando la mente, ampliando la mia essenza. I magnifici disegni buddisti all’interno di un libro, i demoni e gli uomini, i volti trasfigurati dalle passioni, la quiete della beatitudine, un sorriso mite sulle labbra, le dita delle mani intrecciate, la posizione del loto. Avevo oltrepassato lo specchio, avevo camminato dall’altra parte, sapevo come arrivarci, sapevo come tornare indietro, stavo imparando a scivolare sul bordo, fino al punto in cui non ci sarebbe stata più nessuna differenza tra l’immagine e il suo riflesso.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...