sabato 28 maggio 2016

homesick #45

Erano iniziati i commissariamenti, le intercettazioni telefoniche e gli interrogatori avevano portato altra merda a galla, ma intono a me, colleghi e colleghe continuavano a fare finta di niente, mi sarebbe piaciuta una presa di posizione, non parlo di coscienza, in quanto necessitava di una dimensione morale troppo vasta per i sorci che vedevo nei corridoi, però una decisione, in quanto esseri viventi, l’avrebbero pure potuta prendere, ma niente, continuavo ad illudermi troppo, loro si limitavano a rosicchiare i resti che gli venivano dati, si vede che erano sufficienti a soddisfarli, avere lo stomaco pieno e pensare poco, soprattutto non farsi domande sulla provenienza dei soldi che li facevano mangiare, me compreso. 

Il sistema l’avevo scoperto subito, da quando c’ero entrato dentro, non ne avevo avuto immediatamente le prove concrete ma bastavano le mie intuizioni, le brutte sensazioni quando questa gente mi si avvicinava, non erano come me e non lo sarebbero mai stati. Per fortuna. 

Nell’ultima riunione era venuta una delle coordinatrici a parlarci della situazione - avevo capito, con il tempo, che più erano i titoli che uno si metteva, presidente, responsabile, coordinatore e più erano vaghe le cose che uno faceva, perché dietro un titolo ci si immagina che ci sia un sacco di lavoro e invece quelle parole andavano solo a giustificare qualcosa di nebuloso, però ci si faceva grande la gente quando accanto al proprio nome c’erano le altre parole: presidente, coordinatore, responsabile. 

I presidenti l’avevano messi prima in galera e poi ai domiciliari, mi era sembrato giusto chiedere spiegazioni alla mia coordinatrice sul perché di questo duro intervento della legge. I due presidenti arrestati me li ero visti intorno per molto tempo, mentre camminavano nei corridoi, ridendo, parlando al telefono, un’idea me l’ero fatta all’epoca di quello che facevano, poi mi sono letto le intercettazioni telefoniche ed è vero che la realtà finisce sempre per superare, in orrore, la fantasia. 

I dialoghi erano molto spicci, spesso in dialetto romano, i contenuti riguardavano i soldi. Basta. Questo era stato il loro lavoro mentre io me ne stavo in una stanza senza finestre ad insegnare italiano anche a venti persone insieme. Questi tipi si preoccupavano solo di come mettere in circolo il denaro, droga incontrollabile, se poi lo facessero per loro, per gli amici e la famiglia, per paura o per avidità, poco me ne fregava, quei soldi avrebbero dovuto avere un altro utilizzo e non era quello che loro ne avevano fatto. 

E insomma gli chiedo queste cose alla mia coordinatrice, qualche spiegazione e lei, come al solito, ci gira intorno, però la vedo che non è tranquilla e allora continuo sullo stesso tono, con le stesse domande, lei si innervosisce, gioca qualcuna delle sue vecchie carte, ma i trucchetti hanno finito di mettermi paura o intimorirmi e allora continuo a chiederle, ma questi qui perché stanno in galera? E qualche risposta inizia a uscire fuori, nell’imbarazzo generale, eravamo una dozzina di persone, il dialogo non era molto vivo, visto che quasi tutti rimanevano in silenzio, ci serve un po’ di spettacolo, bisogna scaldarlo l’ambiente e allora mi sono dato da fare e più facevo domande scomode, più la coordinatrice non sapeva cosa rispondere, poi se ne è uscita con qualche frase ad effetto, del tipo, dobbiamo fare quadrato, siamo una squadra, bisogna camminare a testa alta, ci voleva tirare su il morale ricordandoci dell’eccellenza del nostro e del suo lavoro, allora a quel punto ho rallentato un attimo, non volevo finire tutte le battute, me le volevo tenere per il prossimo incontro, la prossima messinscena, anche perché parlare di eccellenza quando si è costretti ad usare come classe di italiano uno spazio ricavato in un magazzino interrato senza ricambio d’aria e luce naturale ti fa un po’ riflettere sulla scala di valori che gli altri adottano per giudicare il proprio lavoro. 

Qualche risata al pubblico presente l’ho strappata, verso la fine, ma anche qualche sguardo di dubbio e altri non proprio amichevoli, il resto della compagnia era un po’ scarsa, i ruoli migliori li interpretavano lungo i corridoi degli uffici, nelle riunioni sicure, davanti ad un caffè, l’improvvisazione gli riusciva male, non c’erano abituati, sapevano solo ripetere sempre le stesse frasi, non si può volere tutto, ma avrebbero imparato. 

Me ne sono tornato a casa in silenzio, gli altri continuavano le loro chiacchiere fuori dall’ufficio, come avevano sempre fatto, senza concludere nulla, lamentandosi l’uno con l’altro, come se servisse a qualcosa. Arrivati ad un certo punto non si poteva tornare indietro. Bisognava andare avanti. Possibilmente da soli.


venerdì 27 maggio 2016

homesick #44

Non era un’isola sperduta, nemmeno un paradiso tropicale - c’erano il sole e le nuvole in lontananza che si formavano, venivano dalle montagne azzurrine, le loro linee spezzate all’orizzonte - non era un’oasi, non era una casa in riva al mare, dove uscire fuori su una terrazza dalle ringhiere di metallo, sedersi davanti ad un tavolo bianco, su una comoda sedia, di legno e stoffa, accendere il computer e scrivere, non era nulla di tutto questo, però bastava chiudere gli occhi e respirare e le immagini diventavano reali - era una bella giornata, i pensieri erano quasi assenti, sentivo i rumori della stazione, i fischi dei treni in arrivo e in partenza, chiudevo gli occhi, le spiagge, la sabbia, i tuoi capelli bagnati, mi sono spogliato, ero sul terrazzo dell’edificio in cui vivevo, non c’era nessuno, ho preso una sedia di plastica e mi sono seduto, togliendomi tutti i vestiti e rimanendo a palle all’aria, mi sono spalmato un po’ di crema protettiva, erano le undici, non ricordavo da quanto tempo non mi sentissi così bene, fluivano la vita e l’immaginazione, in maniera continua, non c’erano brutti pensieri a turbarmi, le scelte dei mesi precedenti erano state giuste, allontanarsi da chiunque finisse per rovinare la mia calma e la mia quiete - l’odore della crema solare portava con sé ricordi quasi tattili, l’azzurro dell’acqua, la luce sulle onde, i tuoi seni, le tue dita sulla mia cappella, i respiri della sera, qualcosa che era scomparso, andato e perduto, ma esistevano ancora quelle immagini nella mia mente, proiettate da un odore, su uno schermo di sensazioni nitide - qualcuno tolse la pellicola e il sole si nascose dietro ad una nuvola dalla forma di cane, non avevo voglia di masturbarmi, non avevo voglia di nulla, ero libero, immobile nell’eternità dorata del cuore, battiti lenti, nessun luogo, in questo momento, poteva essere così meraviglioso.


giovedì 26 maggio 2016

bondage (2008)

I'm waking with the roaches
The world has surrendered
I'm dating ancient ghosts
The ones I made friends with
The comfort of fireflies
Long gone before daylight


mi chiedevi di picchiarti, legata sul letto. le guance rosse, gli occhi socchiusi. ombre colavano dalle pareti. avevo il cuore che batteva in maniera incontrollata. sapevo di amarti. sapevo di farti godere. sapevo che il dolore è quanto di più eccitante possa esistere. i tuoi capezzoli erano duri, li strinsi e li tirai. la tua bocca emetteva piccoli gemiti, un filo di saliva ti scendeva dalle labbra. mi avvicinai e lo leccai. aveva un buon sapore. avevi le gambe aperte, le caviglie legate. non potevi chiuderle. iniziai a toccarti. infilai un dito dentro la fica. era bagnata. iniziai a muoverlo. facendolo entrare e uscire. i tuoi gemiti aumentavano. presi un dildo e lo infilai nella fica. muovendolo avanti e indietro. presi un paio di clip e te le misi sui capezzoli. volevo farti venire. beth cantava undenied, le candele erano accese. avevo dei brividi che mi spezzavano la colonna vertebrale. tolsi il dildo e iniziai a scoparti. mi calmai. la tua bocca aperta era invitante. ci sputai dentro, facendo colare piano la saliva. spingevo il cazzo lentamente, poi lo tiravo fuori. aspettavo. la tua fica si muoveva, il tuo bacino spingeva. eri legata. non potevi decidere nulla. continuai così. facendo crescere il tuo desiderio. i tuoi occhi erano ancora chiusi. le parole erano qualcosa di maledettamente superfluo.

legata. bellissima. un mistero di sangue e ossa.

la pelle bianca, liscia, sudata.

mentre il mio cazzo si muoveva dentro di te, la mente oltrepassava i confini della scatola cranica, espandendosi in maniera delicata, fino a svanire, di lei non rimaneva niente, una incredibile leggerezza. quel movimento ipnotico del mio bacino mi portava oltre me stesso, non so neanche io dove, in luoghi in cui non esisteva più niente, in cui l’ordine del mondo e delle cose non avevano più importanza, luoghi oscuri e luminosi, luoghi che avevano odori e colori e immagini e sensazioni che non si potevano trovare da nessuna altra parte.

le tue gambe iniziarono a tremare, tolsi le clip dai capezzoli e li succhiai con dolcezza. la tua fica si contraeva, sospiravi, piccole grida dalla tua bocca. avrei voluto entrarti dentro la pelle, nel cuore, negli occhi, sotto le unghie, avrei voluto essere il tuo sangue, la tua saliva, le tue lacrime, la tua vita. tirai fuori il cazzo, avevi la bocca ancora aperta e mentre i tuoi orgasmi continuavano ci sborrai dentro. poi te lo rimisi nella fica, muovendolo in maniera dolce. assaggiai dalle tue labbra la mia stessa sborra. ce la passammo con lingua.

ti slegai.

ci abbracciammo.

ci promettemmo qualcosa che non aveva nome.

ti baciai piano.


ci sono nodi da cui non riuscirò mai a liberarti.

mercoledì 25 maggio 2016

homesick #43

Se ci penso, il mio capo, che adesso neanche vedevo più tanto, era stato il primo a darmi fiducia. Non lo vedevo perché c’erano stati dei problemi, a livello nazionale, erano usciti articoli su tutti i giornali, sembrava che il capo stesse in contatto con altri capi che gli piaceva fare le cose seguendo un ordine diverso, che apparentemente non era quello giusto, un ordine nascosto, segreto, fatto di altre leggi, ci si divertiva il capo con gli altri capi, quando si riunivano e li sentivo parlare, volgari, grevi, risate che scoppiavano viscerali, che cazzo si ridevano mi chiedevo sempre, l’ho capito dopo il motivo di tutta quella allegria, erano i soldi in gioco e quanto ognuno di loro aveva vinto. E insomma il capo non l’ho mica più visto dopo questa storia che lo riguardava che era uscita su tutti i giornali, c’erano state intercettazioni telefoniche e il capo parlava con un capo più grande e se la ridevano i due, parlavano di soldi e di come spartirseli, ci sapevano fare con la matematica i capi, forse perché i calcoli erano semplici e il cinquanta e cinquanta era una divisione che pure i bambini sapevano fare, però lui non era proprio il mio capo, era quello che mi aveva dato il lavoro, cioè uno che il posto me l’ha dato così su due piedi, uno che la fiducia me l’ha concessa, il perché era chiaro o forse no, c’erano regole che non erano regole, ci si capiva, tra chi conosceva quell’altro codice, qualcuno gli aveva parlato di me, qualcosa si era mosso, l’occasione era venuta, non nella maniera che mi aspettavo, ma che importava, la volontà e l’impegno ce li avrei messi e se non fossi stato io sarebbe stato un altro e in quel periodo non è che si poteva andare tanto per il sottile, le questioni morali me le ponevo ancora ma c’era la vita da affrontare e non potevo più rimandare la sfida e allora mi sono detto proviamoci, vediamo come va, se ti sporchi troppo le mani te ne puoi sempre andare, se l’odore di merda diventa troppo forte non è detto che debba respirarlo per tutta la vita. 

Avevo aspettato un paio di ore, quando ero andato a fare il colloquio per l’assunzione, prima di parlare con lui e già mi dovevano essere chiare quelle che sarebbero state le dinamiche di potere e i piccoli giochi, ma ero inesperto, pieno di speranze, il mondo mica lo volevo vedere come era, mi aggrappavo all’immagine che me ne ero creato, troppo ottimista, troppo sognatore, così è iniziato, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, un lento apprendistato, capire cosa significava quella vita e quale era il suo funzionamento. Me le sono imparate le lezioni, poi qualcosa si è rotto, io ho voluto che si rompesse, l’esercizio della mia volontà era cominciato di nuovo e le cose intorno a me hanno preso a muoversi in una direzione nuova e inaspettata. La mia. Ci sono stati scontri e discussioni e il cuore che batte a mille nel petto e parole pure come non mai, le mie, che non so se hanno avuto effetto, ma penso proprio di si. Così il capo e gli altri mi hanno lasciato in pace, non so quanto sarebbe durata, ma qualcosa adesso non c’era più. L’obbedienza. Il silenzio di chi acconsente senza dire nulla. Avevo dovuto sconfiggere la paura, un nemico antico, che si nasconde nel cuore di tutti, la paura, il capo non mi faceva più paura, ci eravamo presi a parolacce e così avevo ottenuto il suo rispetto. Lui ebbe la mia compassione. E come scambio non c’era nulla di male, per pochi attimi eravamo state persone migliori, solo per pochi attimi, in una infinitesima scintilla di luce, ci eravamo guardati dentro, forse per questo, poi, non è più tornato a parlarmi.



martedì 24 maggio 2016

dream #26

Sto camminando con Matteo per andare ad una riunione, arriviamo nel luogo dove si svolgerà questo incontro ma non ho più voglia di partecipare, glielo dico, lui inizia di nuovo a tirare fuori le sue preoccupazioni, a dirmi che siamo amici e che dobbiamo fare le cose insieme, non ho nessuna intenzione di ascoltarlo ancora, perciò me ne vado – Sono con Marco dentro una piccola stanza, c’è una porta bianca, siamo seduti su un divano e stiamo guardando qualcosa in televisione, gli dico che ho ritrovato dei video di quando eravamo ragazzi e che stavo provando a montare le immagini, poi mi alzo, apro la porta bianca e sono per strada, che è uguale a quella dove abita mia nonna, credo ci sia anche lei da qualche parte, anche Marco è uscito, siamo lì fermi quando arriva suo figlio, corre verso di noi, Marco gli dice qualcosa, poi camminiamo insieme – C’è un gatto a cui hanno tagliato una zampa, è fermo nel centro di un cortile, ci sono altre persone intorno, una strana luce è sospesa sopra la testa di ognuno.

domenica 22 maggio 2016

le alte torri #47


Ombre nere. Uomini neri. Anche io uno di loro. Le strade di notte, gli oggetti in mano, intorno al collo, in un grande zaino, dietro le spalle. I giri, da un locale ad un altro, cercando di vendere, qualcuno ti scacciava, altri ti ignoravano. Travestimenti, cambi di identità. Dormivo con loro, ammucchiati dentro una stanza, miscugli di odori pungenti, le coperte logore, le lenzuola strappate, mangiavo i loro cibi, respiravamo gli stessi odori. Imparavo. Avevamo la stessa pelle, gli stessi occhi. Imparavo. I suoni della loro lingua, i significati delle loro parole. Pregavamo insieme. Cadevamo. Ci rialzavamo. Nessuna porta, nessuna via di fuga. Era un addestramento, giorno dopo giorno, non sapevo quando sarei tornato, dovevo stringere i rapporti, conoscerli meglio, imparare a farli diventare un gruppo. Capire come usare la loro forza.
Le marce nel deserto, le armi, i bersagli. Le preghiere, i canti, i colori della sera. Seduti in cerchio, a parlare. Si decidevano gli obiettivi, si cercavano strategie, si costruiva un piano di azione. Le tuniche, i volti coperti, il libro sacro in una mano, il fucile nell’altra.

Entrambe alzate verso il cielo.

mercoledì 18 maggio 2016

le alte torri #46


L’ombra si staccava. Da sola. Prendeva vita. E vagava. Incollata ai muri. Colava nel caldo e nel sole, si allungava, al tramonto, a toccare orizzonti di pietra, vetrine rosse, oscuri desideri. Era identica alla notte, densa di buio, profonda e antica, la disegnavano candele, luci nascoste, l’ombra scivolava, passava accanto alle persone, rubava odori, frammenti di frasi, sguardi improvvisi, attirava con l’inganno uomini e donne, li spiava, si allontanava, fuggiva, si appiattiva per terra, strisciava, tremava nei riverberi di agosto, l’ombra conosceva il quartiere e le sue entrate, conosceva le stanze segrete, l’ombra conosceva Sofia e le sue pratiche, l’ombra conosceva il dolore, gli schiaffi, i colpi, la frusta e i lividi. L’ombra si staccava, la vedevo allontanarsi silenziosa, inquieta, filtrare dalle fessure della porte, fluiva nel tempo e nello spazio, senza leggi e senza regole, non mi parlava, non mi diceva mai niente, aspettava il suo momento. Alcune volte, quando ero sotto l’effetto delle sostanze, la volontà dell’ombra diventava più forte, sapeva cosa fare, come soddisfare il suo bisogno, la sua dipendenza. L’ombra e Sofia si conoscevano bene, non si parlavano, agivano e tramite le azioni comunicavano. L’ombra era sé stessa e me, era il momento del crepuscolo, la frattura dei mondi, l’ombra inghiottiva luce, la cancellava e se ne nutriva.

Le strade sono pece e fiamme. Le bandiere verdi sventolano nell’aria. Sofia attende nella sua stanza segreta. Accendendo candele.

domenica 15 maggio 2016

senza titolo

l’aria aveva un dolce profumo
come se ci fosse ancora il tuo respiro
vicino al mio volto
chiudevo gli occhi
e la luce mi baciava le palpebre
le foglie sussurravano
i loro ricordi e
non sapevo se ti avrei vista
almeno un’ultima volta
nella mia vita
perché erano lontani
i giorni in cui ti stringevo
fra le braccia
e le tue labbra erano petali
e i tuoi occhi boschi
d’autunno
quando la sera e i suoi colori
si fermavano nel silenzio
di un tramonto.


sabato 14 maggio 2016

dream #25



Sono in un ufficio, insieme a delle persone che lavoravano con me, sto cercando degli adattatori, ci sono dei lunghi corridoi, verso la fine di uno di essi c’è un letto e mi accorgo che sotto le coperte ci sono due persone che stanno scopando, le saluto a voce bassa, poi trovo una presa in un muro e provo l’adattatore che ho in mano, ma non è quello giusto, allora torno indietro e in un’altra stanza incontro Matteo, una donna dice che non dovrei essere lì, me ne vado dall’ufficio, senza salutare nessuno.


Cammino per strada, innervosito, Aldo voleva portarmi all’aeroporto ma gli ho detto di non rompermi i coglioni e che sarei andato da solo, c’è anche Lorenzo, mi chiede perché non voglio che il padre mi accompagni, gli rispondo che non ne ho bisogno, arrivo ad una stazione della metro, c’è Marco, non riesco a comprare i biglietti, ci sono due inglesi che mi chiedono qualche spicciolo, gli sorrido, mi muovo per i corridoi sotterranei per trovare la macchina per fare i biglietti – Una è occupata, ci sono una madre e sua figlia davanti, l’altra è libera ma invece dei biglietti serve per comprare delle vaschette di cioccolata, ce ne sono alcune rimaste in un contenitore lì vicino, ne prendo un paio, pensando di portarle ai due inglesi, c’è anche un grande distributore per l’acqua, la parte anteriore si dissolve per alcuni secondi e dietro di essa intravedo il profilo di un uomo, poi l’immagine torna normale, arriva una bambina, le chiedo se vuole una vaschetta di cioccolata, lei sorride, senza rispondere. 

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...