domenica 14 dicembre 2014

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Senti il tamburo? bum! bum! ci sono solo due tonalità, sempre bum! bum! Senti il lamento di dolore delle donne? Senti il grido dei sacerdoti? nel suo lungo mantello la donna indiana sta sul rogo, le fiamme avvolgono lei e il marito morto; ma la donna indiana pensa a colui che vive, a colui i cui occhi bruciano il suo cuore più caldi delle fiamme che presto trasformeranno il suo corpo in cenere. Può la fiamma del cuore morire nella fiamma del rogo?

Andersen
La regina della neve

giovedì 20 novembre 2014

homesick #16

Tornavo a casa passando nel tunnel sotto alla ferrovia e all’uscita il cielo sopra i palazzi era elettrico, con scariche azzurrine e silenziose in lontananza, verso le montagne. A sinistra c’era il solito accampamento di miserabili, con le loro tende, le valigie e la sporcizia, poi poco distante, tra le macchine parcheggiate, stronzi e pisciate, un deposito di bisogni umani all’aperto. Qualcuno stava fumando una sigaretta, altri giacevano immobili sui cartoni, le giornate si stavano scorciando e la vita stava di nuovo rinchiudendosi nei soliti schemi, la gabbia si faceva sentire e allora continuavo a camminare, sui fianchi delle strade, sotto le antiche mura, le macchine erano immobili, c’erano bottiglie di birra vuote per terra, alcune intatte, altre in frantumi. 

E il desiderio di masturbarsi come fosse la prima volta, le voglie del corpo erano così stupide, eppure bisognava soddisfarle, in un modo o nell’altro e ci piaceva la violenza a noi animi turbati e un paio di frustate non facevano mai male, certo, la cosa si sarebbe potuta anche vivere con un po’ più di ironia, ma di questi tempi era difficile ridere, farlo veramente, senza che le risate uscissero fuori malate e compulsive, mi facevano orrore quei suoni e nel posto dove lavoravo ne sentivo pure troppe di quelle scariche nervose.

Il posto dove lavoravo, i luoghi dove avevo lavorato, nei centri di accoglienza per rifugiati politici e richiedenti asilo, a fare lezioni di italiano in sale dove altre persone pranzavano, ruttavano, si accanivano contro cosce grigie e viscide di pollo e tutti quei rutti e quel rumore quando giusto giusto stavo provando a spiegare due cazzo di regole di grammatica a un gruppetto di studenti proprio non li sopportavo e un paio di volte mi sono usciti fuori degli urli anche a me, che a quelli che stavano mangiando gli si è gelato il sangue nelle vene e allora c’è stato silenzio, un bel silenzio e quelle due stronzate che gli dovevo dire, ai miei ragazzi, gliele ho dette in santa pace e poi i giorni d’estate, seduto su un divano lurido e sfondato, ad attendere che qualcuno si degnasse di venire ad imparare qualche parola della mia lingua, ma questi la voglia di studiare non ce l’avevano proprio e neanche potevo biasimarli, ma io stavo lì e un lavoro lo dovevo pure svolgere, avrei potuto insegnare qualcosa alle mosche che mi ronzavano intorno e che non avevo neanche il coraggio o la forza di uccidere per quanto ero stanco e deluso e svogliato e allora aspettavo che le ore scorressero e se la sera prima mi ero sfondato di canne a dovere quell’attesa era ancora più pesante, con il calore e quell’odore perenne di cibo scadente. 

Ci ho passato più di un anno e mezzo in quel centro, in un hotel dimmerda a Guidonia, una volta alla settimana, erano giornate buttate nel cesso, letteralmente e il tempo sprecato non finiva lì, certo, mi piaceva stare in classe con i ragazzi e le poche ragazze quando c’erano le condizioni giuste, una parvenza di scuola, una lavagna, delle sedie, ma le energie finivano sempre per esaurirsi e il giorno dopo c’erano ancora cose da dire e ripetere e tu non ce la facevi più perché queste persone ti succhiavano via tutto, era un bel dare, un bel condividere, ma qualcosa, cazzo, te la dovevi pure tenere per te, un briciolo di intimità, di vita segreta, un angolo nascosto e ben protetto dove startene a fare le cose tue. E allora me li sono iniziati a riprendere quegli spazi, prima nella mente, poi nei luoghi, poteva essere una stanza, la macchina, il cesso, un albero, un posto dove non vedessi nessuno, dove nessuno mi disturbasse con i suoi problemi, le sue lamentele, il suo perenne bisogno di aprire bocca e dargli fiato, perché stare ad ascoltare gli altri proprio non mi è mai piaciuto, soprattutto quelli che ti raccontano subito ogni cosa della loro vita, prendendosi un’intimità che non esiste, che nessuno gli ha dato il permesso di avere e loro ti stordiscono, si scaricano e allora con il tempo ho cominciato a starmene per i fatti miei, magari un buongiorno e un buonasera, giusto per un minimo di educazione e poi basta, perché è così calmo quel luogo speciale che c’ho dentro che alla fine ci sto meglio da solo o se incontro qualcuno che sente le cose come me allora glielo faccio vedere questo angolo luminoso e curato e ci passiamo le ore insieme, in tranquillità, in silenzio, qualche volta parlando, ma qui le parole diventano reali e hanno un sapore, sfumature e odori, musica e gioia e fluiscono da uno all’altro che è una bellezza e poi tutte ‘ste donne che ti girano intorno, sono ovunque dentro quei palazzi, quelle stanze e prima sono i sorrisini e le strizzate d’occhio e come si divertono quando le fai ridere, si illuminano, si sentono vive e ne vogliono sempre di più di questa energia, di questa vita e le devi guardare perché così si credono reali e dopo un po’ sto giochetto non è neanche più divertente, perché dietro non c’è nulla e anche loro ti rubano quello che ti splende dentro e se lo tengono per loro, egoisticamente, ci si abbelliscono, ma non c’è scambio, non c’è niente, dietro quel circo di capelli tagliati, di vestiti diversi, di cambi di acconciatura e allora mi sono rotto i coglioni e me ne sono tornato a stare per i cazzi miei.

Adesso piove e ho chiuso le finestre, perché il rumore è troppo forte, oscilliamo fra queste ombre furtive, il sentiero dorato è ancora lì davanti, potessi vivere scegliendo forme, luci e colori, potessi vivere così, senza gli occhi avidi della gente intorno, nel riflesso abbagliante delle mattine del mondo, senza sapere più, finalmente, dove andare.


venerdì 14 novembre 2014

senza titolo

se ne sono andati i giorni, a colpi di albe e tramonti, a pezzi di discorsi, se ne sono andate via le facce e i sorrisi, sei stato attento perché tutto crollasse nel migliore dei modi, seduto tra pile di libri, a raccogliere la polvere, c’erano scie luminose e lontani profumi, c’è stato pure un tempo quando le promesse avevano dita delicate per appassionarti, c’è stato anche il tentativo di crederci e di raccontarsi una storia diversa, di farla tua, di passare tra le case, i lampioni, gli sputi per terra, le bestemmie e i baci, un modo di passare silenzioso e gentile, dolce nella sua mancanza di interesse, ci sei pure andato vicino a crederti simile a loro, hai aperto un po’ di più la porta per guardare meglio come funzionasse la cosa, ma capendone le regole hai dovuto fare un passo indietro, un po’ alla volta, per osservare meglio, per rimettere i gesti e gli sguardi in prospettiva, ancora indietro fino non a scorgere nemmeno il debole bagliore dei loro volti, era un modo nuovo di rischiare e se andava fatto, meglio prima chiedersi se ne valesse davvero la pena, non c’era nulla che fosse rimasto intatto, in bilico danzavi in solitaria estasi, i frammenti delle stelle e le crepe nel cielo, anche andare oltre non sarebbe servito, nessuno ti avrebbe risposto, rimanere sospeso, nel bel mezzo della caduta, un sorriso ai fotografi e una grattata ai coglioni, lo toccherai il fondo, tra pochi, brevi e intensi istanti, lo toccherai nel buio del tuo cuore, in una scintilla di infinita bellezza.


giovedì 6 novembre 2014

freewheelin' #15

Ci ero ritornato a casa di mia madre e non ero solo. Abbiamo mangiato in cucina, io e una ragazza e sembrava di essere scivolati nel mio passato, tutti quei pranzi, da solo o insieme a qualcuno, tutto il tempo che ci ero stato in quel luogo e la luce, la luce che adesso ci illuminava era la stessa di allora, quella luce non cambiava mai, era meravigliosa, la ricordo quando passava attraverso le tendine, era una luce magica, accogliente, una luce che rallentava il passare degli attimi, me la ricordavo da quando ero bambino, quella delle domeniche mattina e la danza della polvere e dopo pranzo ci siamo seduti sul divano e ci siamo dati un po’ da fare, cioè lei si è data da fare, a volte basta slacciarsi i pantaloni, tirarsi giù le mutande e poi le cose vanno per il verso loro, naturalmente, è così semplice questo gioco quando non ci complichiamo troppo i pensieri, anche perché c’è poco da pensare, ci sono pure i desideri e le fantasie, ci scivoliamo dentro, le vogliamo reali, ci aggrappiamo ai nostri impulsi, ne rimaniamo spaventati, ci blocchiamo, poi tutto torna come prima e si inizia di nuovo a giocare, a toccarsi, si va avanti così, in punta di piedi o con un grande chiasso, ma non possiamo fermarci, mai, è la nostra natura, cerchiamo di controllarla, di ingabbiarla, cerchiamo di tenerla nascosta questa energia, ma lei c’è e deve uscire fuori e a volte è divertente, altre meno e poi ti risvegli con i lividi e le ferite e neanche ti ricordi come te le sei fatte e poi ci sono i sogni e quello che accade al loro interno e ragazze sconosciute e altre con cui hai passato il tuo tempo e nei sogni ci sono anche i loro corpi e tu che entri dentro quei corpi, ci perdiamo in notti d’angoscia, ci svegliamo sudati e inquieti, ci lasciamo andare e ci tratteniamo e quelle sensazioni, fatte di molte più cose di quante ne conosciamo o possiamo confessare a noi stessi ci tengono in vita, ci feriscono, ce ne vorremmo liberare e le esaltiamo, la tensione si allenta, l’energia si disperde, torniamo quieti a sorriderci in silenzio, la notte è passata, i tuoi capelli li sento ancora tra le dita.



lunedì 27 ottobre 2014

homesick #15

Uno la volontà ce la metteva pure, anzi, ce la metteva più di ogni altra cosa, perché sennò sarebbe stato un incubo il solo pensiero di alzarsi tutte le mattine per andare in una stanza di dieci metriquadri, senza finestre e senza illuminazione naturale, a spiegare sempre le solite quattro stronzate a ragazzi africani, arabi e asiatici e quando l’ossigeno veniva a mancare, perché c’erano troppi polmoni impegnati nello stesso lavoro e troppe bocche che provavano a parlare un’altra lingua, spesso con scarsi risultati, era alla volontà che ti attaccavi. Sapevi che c’era il piacere di stare con loro, ma non sempre, tante volte si, ma non sempre, perché alcuni giorni te ne saresti stato per i cazzi tuoi, in silenzio e in solitudine e quando fuori da quel buco vedevi che c’era una bella giornata, con la luce di ottobre e l’aria buona e sapevi che c’erano sorrisi di ragazze in una villa ad aspettarti o una sdraia sotto i grappoli maturi dell’uva o una sedia nel sole di una spiaggia desolata o altre migliaia e migliaia di cose diverse da fare o più semplicemente nulla con cui impegnare il proprio tempo, era la volontà, la volontà solo a farti stare là dentro e neanche i soldi, alla fine, perché altrimenti eri soltanto un’altra puttana, i soldi un poco, per tirare avanti, per vivere, per mettere da parte qualcosa, con la speranza che diventasse un bisogno concreto il desiderio di andarsene, di partire, di sganciarsi da questa vita. 

E una volta fuori, salutati i ragazzi, ti incamminavi verso casa e scivolavi tra le persone, come sempre, una busta in mano, qualcosa da mangiare per cena, meglio se c’era una bottiglia di vino che ti aspettava in cucina e camminavi e guardavi quello che avevi intorno e ti chiedevi il momento in cui sarebbe stato di nuovo tutto tuo il tempo e il modo di riempirlo e poi finivano pure le domande perché c’era una luce meravigliosa che stava morendo e ti sedevi su una panchina, mentre la notte, avvolta di stracci, si chinava a baciarti sugli occhi.

martedì 21 ottobre 2014

freewheelin' #14


eiaculazioni maschili come pere d’eroina. l’istinto maschile e quello femminile si travestivano in forme e promesse, era sempre il solito gioco, entrare e uscire, svuotare e riempire, era la solita illusione che faceva andare avanti il mondo e con lui la nostra razza bastarda. i ragazzi arabi si picchiavano per strada, urlavano tra di loro, le donne vestite di nero, con il volto coperto, avrei dovuto limitare ancora di più i contatti umani, non lasciarmi sfiorare o toccare, avevamo un bel peso da portare e questo peso ce l’avevamo nei coglioni, si gonfiavano, bisognava svuotarli, fino a quando sarebbe durato? tante donne ci guadagnavano sopra, altre ne erano distrutte, c’erano i soldi e lo sfruttamento e le grasse risate di vecchie battone in vetrina, sedute sullo sgabello, i fessi sarebbero tornati, lo sapevano, andava così, andava avanti così da sempre, céline chiuso nella sua casa di campagna  a bestemmiare e guardare i suoi gatti, vestito di stracci come un barbone, la foto in bianco e nero di una spiaggia deserta, camminiamo piano, senza lasciare orme, camminiamo piano, l’orizzonte sembra svanire, tra nuvole e odori di pioggia, l’orizzonte sembra svanire e noi continuiamo a camminare, isole lontane, tramonti dimenticati.

lunedì 13 ottobre 2014

freewheelin' #13

il sangue scorreva lungo il collo del ragazzo arabo, respirava in maniera accelerata, il battito del suo cuore rimbombava tra i palazzi arancioni della piazza, si era avvicinato ad una bicicletta e aveva preso una catena, poi era corso a cercare chi gli aveva spaccato una bottiglia sul collo. Gli altri ragazzi sciamavano per le stradine intorno alla piazza, andavano e tornavano, nascondevano le loro sostanze, poi si sedevano, parlando, fumando una sigaretta, poi di nuovo in piedi, le domande di rito - tutto a posto? erba bello? - qualcuno comprava, altri declinavano l’offerta, il gioco era con la polizia, le macchine azzurre passavano lente nella piazza, ogni tanto, nessuno scendeva dalla macchina, un lento ed inutile giro, poi tutto tornava come prima.

Il suono animalesco dei tamburi, la lingua rosa di un africano che saettava tra le sue labbra mentre creava ritmi tribali con le mani, le donne impazzite sotto al palco, rapite da un’estasi primitiva.

Vestito da donna mi attendavano alla prima visione di un film a cui avevo partecipato, dentro una caverna le sedie erano sistemate in ordine sparso, gli occhi degli altri che mi scrutavano, cercando di rapire segreti e misteri, camminavo avvolto in una indifferenza magnetica.


Il sole schiacciava i miserabili sull’asfalto, quando le macchine si fermavano li vedevi saltare fuori  dalle loro gabbie invisibili di calore e gas di scarico, poi si lanciavano contro i parabrezza delle auto, pronti a lavarli, gli strumenti luridi e gocciolanti di sapone stantio. Gli automobilisti li cacciavano via con gesti di impazienza, queste mosche alla ricerca di qualche spicciolo, gli automobilisti erano protetti dai vetri dei loro veicoli, comodi sui sedili, con l’aria condizionata che gli accarezzava la pelle del viso, delle braccia e dei coglioni, aspettavano che scattasse il verde per correre verso il nulla che li attendeva, i miserabili tornavano ad accucciarsi, in spicchi sempre più piccoli di ombra, nell’attesa che il semaforo diventasse di nuovo rosso. Era una lotta e loro avevano già perso.

lunedì 29 settembre 2014

San Pedro #4


Volammo ancora, attraversando la notte, gli occhi del vecchio erano luminosi, sembravano fari accesi, i raggi di luce che proiettava sulle pietre facevano nascere ombre, antichi esseri di un popolo perduto che fuggivano veloci, di lato, allungandosi e scomparendo, questo è il popolo delle ombre – disse il vecchio – la loro lingua è quella degli opposti, della lotta tra la luce e il buio, erano migliaia, li vedevo uscire fuori dalle pietre, parlavano attraverso il movimento, la fuga, una breve e veloce esistenza ripetuta in molteplici e oscure figure. Arrivammo in una valle ancora avvolta dalle tenebre, la temperatura era molto bassa, avevo freddo, il vecchio batté più forte sul tamburo per far salire il mio calore corporeo, ci posammo sul suolo e le forme dei vulcani iniziarono a mostrarsi, l’alba stava arrivando e fumi densi si alzavano da buchi nella terra, c’era odore di zolfo e il suono di una lingua misteriosa simile a quello dell’acqua che sta bollendo, la luce avanzava, mostrando i pendii delle montagne che avevamo intorno, piante dalle sfumature giallastre e ancora rocce sulfuree e i fumi che salivano, avvicinati – disse il vecchio, mi feci più vicino ad una di quelle pozze e vidi l’acqua sotto forma di bolle d’aria, salire sempre più intensamente, poi mi allontanavo e l’acqua sembrava calmarsi, iniziammo una strana danza, simile ad un arcaico dialogo tra l’uomo e la natura, quegli spiriti erano imprevedibili, solitari, si disperdevano nell’aria, cambiavano la loro sostanza fisica, nascevano dall’acqua che incontrava il calore della terra per poi diventare aria, non volevano essere disturbati, mi sedetti accanto ad uno dei buchi fumanti più grandi e iniziai a diventare anche io vapore, fino a svanire a oriente, dietro i vulcani, nel cielo ormai chiaro.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...