martedì 31 luglio 2018

Aberystwyth #3

Eravamo seduti dentro all’Ultracomida e bevevamo caffè nero, discutendo di Akira Kurosawa e Takeshi Kitano, Mijazaki e ukiyo-e, di stampe giapponesi e della loro influenza sugli artisti francesi di fine ottocento, soprattutto Van Gogh, il dipinto della sua stanza ad Arles mi ricordava quella in cui adesso vivevo, le pareti gialle sulle quali avevo appeso le mie fotografie e un paio di quadri che avevo trovato dentro le camere dimenticate di Noddfa Dawel. 
Durante la settimana facevo dei semplici lavori manuali, riparazioni e altro, usavo dei vecchi vestiti macchiati di vernice, presi da un sacco abbandonato ed era strano avere tutti i giorni le sembianze di uno straccione. Poi il pomeriggio mi mettevo a scrivere, a leggere o semplicemente a galleggiare nella mente, scivolare fra i ricordi, meditare, ascoltare il vento fra le foglie, la pioggia, osservare le nuvole, la luce, lo sfumare del giorno. 
In un’altra stanza avevo trovato un borsone pieno di scarpe femminili, ne avevo prese un paio e mi ci ero masturbato dentro, riempendole di sborra. Nelle vetrine di un negozio avevo visto degli stivali alti, neri, avrei voluto una donna che li indossasse e mi ordinasse di leccarli, seduta su un divano, il bicchiere di vino in mano.
Fuori dall’Ultracomida Lynn ha detto con voce solare di andare al mare, ho avuto un flash dell’estate e del caldo e della sabbia dorata, della pelle bagnata, del sale, dell’odore delle creme, poi una raffica di vento ci ha raggiunto insieme alla pioggia e mi è venuto da ridere e abbiamo passeggiato verso la spiaggia ed era freddo e le onde erano alte e grigie e le strade chiuse perché nei giorni precedenti c’era stata una tempesta e l’asfalto era ricoperto di sabbia bagnata sulla quale lasciavamo le nostre impronte, sembra di camminare sulla neve ha detto Lynn e poi siamo tornati verso la stazione dei treni, mi sono fermato a comprare un paio di bottiglie di vino in un supermercato e dopo ci siamo salutati nel parcheggio dove lei aveva lasciato la sua macchina.
Era sabato pomeriggio e non avevo nulla da fare, sono andato a trovare Elliot, abitava in una casa che dava sul mare, mi piaceva sedere davanti a una delle finestre e bere un bicchiere di vino, guardare l’oceano, il cielo, ogni tanto Elliot suonava il pianoforte e le mie fantasie divenivano più reali, insieme ai viaggi immaginari e alle parole dei racconti che avrei scritto una volta tornato nella mia camera.
Gli anni passavano in una danza di eventi che mi trascinavano con loro, avevo ancora tempo e soldi a sufficienza per rimanermene nascosto un altro po’. 
Non avevo fretta.
Non ne avevo mai avuta.

sabato 28 luglio 2018

Manchester #5

Potremmo ridurre il linguaggio a una serie di stronzate, di ridicoli segni trasformati in suoni, diceva il Dottor Ballard, dalla sua poltrona di pelle nera, dietro la scrivania di legno e metallo, senza dimenticare l’uso erroneo che ne viene fatto dalla maggior parte delle persone, le quali si sono ritrovate a esprimere, attraverso di esso, cose che neanche capiscono o semplicemente ad utilizzare questo strumento nella maniera sbagliata con il disastroso risultato di riempire l’aria e il mondo con le loro merdate. 
Immagina di camminare per un sentiero in un bosco e dimenticare il linguaggio verbale, non avresti più categorie mentali per ridurre la realtà intorno a te in parole, dovresti solo affidarti alle tue percezioni e lasciarti guidare da esse. 
Il Dottor Ballard aprì una piccola scatola di avorio, all’interno c’erano diverse pillole, prendi quella rossa e mettila sotto la lingua, mi disse. Raccolsi il suo consiglio insieme alla pillola, poi chiusi gli occhi e attesi. 
Qualcuno doveva aver abbassato le veneziane delle finestre, perché adesso la luce arrivava a strisce parallele con porzioni di buio violaceo, pensai alla notte e sentii un odore come polvere di stelle, lascia stare i pensieri, sussurrò una voce, segui il flusso delle immagini, stazioni, macchine, deserto, l’oscurità ai limiti della città, le cosce aperte e sudate di una donna messicana, avanti leccami la fica comandava uno stivale di pelle nera, ti viene duro, vedi, non puoi farci niente, insinuava la giovane segretaria con le gambe divaricate, piloni dell’alta tensione, stazioni fantasma, una mano invisibile aveva cancellato le ultime parti di una sceneggiatura psicosomatica, non ricordavi più dove eri stato? Dottore? Cosa possiamo fare? La siringa fra le dita, il siero che gocciolava dalla punta dell’ago, gli eserciti di formiche in tenuta antisommossa, avranno la loro rivoluzione grugniva il dittatore mentre si masturbava con un cavo elettrico, ferma il pensiero, registra i tuoi esperimenti psichici su un nastro magnetico, uno di fronte all’altro, le gambe incrociate, gli sputi nella bocca, ferma la macchina, continua a leccarmi la fica, ferma, taglia, riproduci, inverti, crea una nuova linea atemporale di idee in espansione, esplosioni di porte in uscita, i corridoi si moltiplicano, le stanze di asfalto, chi comanda, chi chiude i pugni e raccoglie le schegge dalla terra, improvvise melodie e volti e poi scaraventa le maschere oltre le barriere del suono, aerei da caccia che attraversano iridi e pupille, l’apocalisse fradicia di sudore, godi in ginocchio e marcia tra folle di poveri stronzi, ferma la macchina, bisogna dormire, le prime luci dell’alba, il canto degli uccelli, i sibili delle televisioni, le gocce di abbandono, il profumo della collera, la rabbia blu, le mistiche caverne e le eco di stonate verità, tutto questo e altro ancora e – cammina su quel sentiero, sussurra ancora il Dottor Ballard, segui le forme, i colori, i suoni, impara a sciogliere i nodi, guarda te stesso, guarda l’altro che guarda te stesso, siedi in silenzio e lascia la mente vibrare in questo vuoto infinito.

martedì 3 luglio 2018

senza titolo



respiravo
ed era aria
e quiete
e luce fra le foglie
e il tuo volto
e gli anni andati
e tutte le poesie
che non avevo più
scritto

respiravo
e i ricordi 
si nascondevano
sotto le palpebre
e poi c’erano alberi
e colori
e l’azzurro
senza pensieri
del cielo

respiravo
e la vita era ancora
con me
nel vuoto infinito
di un attimo
che tutto il tempo
racchiude.

lunedì 2 luglio 2018

Noddfa Dawel #3

Ruggine, filo spinato, il ronzio del frigorifero, il vento, i rami che ondeggiano folli nell’aria, la consistenza della vernice, l’acqua ragia, gli odori di quando ero bambino, un pianoforte scordato, gli strumenti di tortura, le antiche credenze, le porte socchiuse su una lama di oscurità, le vecchie querce, gli assalti del sonno, le schiere di nubi come eserciti all’orizzonte, un sole rosso, le pecore come apparizioni psicotrope, gli album fotografici lasciati a marcire dentro scatoloni abbandonati, tutte le voci che non hanno più parlato, chi è passato senza lasciare alcun segno, chi è fuggito scivolando su superfici di vetro senza riflessi, le mattine in cui era la luce a svegliarti, i passaggi morbidi, il modo in cui i respiri davano forma a immagini e ricordi, la mente fluida e quieta, gli orologi fermi, il profumo dell’autunno e i suoi colori, i libri sul tappeto, le candele su cui è la notte ad addormentarsi e infine a sognarti.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...