lunedì 29 febbraio 2016

homesick #32

Troppe bocche aperte, mani tese, ghigni famelici, lungo i bordi delle strade, corpi inginocchiati, occhi e stomaci vuoti, litanie incomprensibili, chi con una rosa in mano, chi offrendo alla vista un bambino sporco in fasce. Fuori dai supermercati gli uomini neri tendevano il loro cappello lercio o un bicchiere di plastica a quelli che uscivano, qualche spicciolo, poche parole, dovunque giravi lo sguardo c’erano i segni della miseria. Le donne che passeggiavano, ragni in attesa delle loro mosche, i profumi scadenti, dentro quelle stanze si accendevano sigarette e si scambiavano i gesti di rito, ci si provava a baciarsi, a toccarsi, ad avvinghiarsi, a strusciarsi, ci si scaldava gli uni sugli altri, corpi sconosciuti, odori di viscere, la saliva e lo sperma, gli occhi cerchiati e gli aliti cattivi, le spinte del basso ventre, il movimento ritmico, i fazzoletti, i gemiti, i soldi lasciati su un tavolino, sotto un posacenere. 

Le vetrine si riempivano di oggetti, le luci venivano accese, la solita frenesia natalizia, i pacchi, i pacchetti, i nastrini colorati, come sarà stato cinquanta, cento anni fa? Sempre le solite stronzate, sempre il solito spettacolo, ci si finiva perennemente in mezzo, nascita di cristo dopo nascita di cristo, non si riusciva a fuggire. Da quella fretta, da quell’ansia, da quel bisogno. 

L’idea di finire tutti i soldi, di non possedere più nulla, seduto su una poltrona sfondata, dormendo in macchina, cercando di vendere libri usati, rubati, che nessuno leggerà mai. Le mascelle che masticano, la pelle cadente agli angoli della bocca e del viso, le notti di pioggia, le lamiere contorte di una baracca ai bordi di un fiume, il tuo corpo di ragazza, i tuoi lunghi capelli che accarezzavo dentro una macchina, passava la vita, passavano le persone, era così struggente la possibilità di perdersi e non vedersi più, la semplice sensazione che vi fosse altro al di là di questa illusione e anche che non ci fosse nulla, che fosse tutto qui, nel lento e costante ripetersi dei giorni e intorno tutti si stavano muovendo, crollavano certezze, si aprivano spiragli, il cerchio si stava per chiudere, un’ennesima volta, come se non lo sapessi, avrei iniziato di nuovo tutto da capo. 


domenica 28 febbraio 2016

ukiyo-e

Orizzonti di assoluto silenzio, luce quieta del tramonto, le stanze della mente, in perfetto equilibrio, un filo teso sul vuoto.

Ad occhi chiusi, immobile, cosciente della realtà. Ad occhi aperti, le immagini vibrano, pulsano, si manifestano nel loro inarrestabile susseguirsi.

Il mondo fluttuante, meraviglioso perché in continuo mutamento. Da osservare. Il dolore delle passioni, dei gesti, ogni volta che cerchiamo di toccare qualcosa, afferrare, possedere. Il mondo fluttuante deve rimanere pura rappresentazione, immagine ferma, esperienza sinestetica di un attimo di vita appena scomparso, svanito nel tempo.

Un attimo che porta con sé i brividi della pelle, i sussulti e i battiti del cuore, il trasformarsi delle emozioni, i fremiti, i desideri incontrollabili. Un attimo che diventa eterno.

Da osservare.

Quinte teatrali e scenari. I gesti codificati. La rappresentazione della vita in complesse e fluenti posture. Il controllo del corpo. Le maschere. I ricchi costumi.

Seduto nella posizione del loto osservo la pioggia cadere sull’acqua di uno stagno. 

Ogni goccia che colpisce la superficie dell’acqua produce delle leggere onde concentriche che si allargano fino a svanire.

Ogni goccia è un pensiero.

Lo stagno è la mente.

Finisce di piovere, la superficie dell’acqua è immobile.

Mi alzo e cammino verso nessun luogo.

Il mondo, intorno, è luce e silenzio.


sabato 27 febbraio 2016

homesick #31

Ritagli di cielo e nuvole, sopra i tetti, tra i fili dei tram, tesi da una facciata all’altra dei palazzi, le stradine intorno alla stazione, gli alberghetti da pochi soldi, le stanze ad ore, le donne che passeggiavano, come in una cartolina di inizio secolo, con gli stivali e i guanti, cercando qualche cliente, lo stesso gioco, la stessa pantomima di allora, senza più poesia, vino, assenzio, oppio, senza risate e magie, soldi che passavano da una mano all’altra, le scale fatte di fretta, l’uomo si toglie i vestiti, la donna lo fa più lentamente, quanto durerà il loro incontro? Poco, sempre troppo poco, senza parole, i gemiti e i colpi che affondano nella carne, si accendono anche da fumare, dopo, e la stanza sa di migliaia di sigarette e momenti sprecati, l’intera stanza è piena di questa triste fragranza, qualcosa che si è perduto, così, giorno dopo giorno e i bambini con le loro madri, sempre lungo quelle stradine, che camminano verso scuola, sotto il peso degli zaini, dei libri, un’educazione alla schiavitù, la loro, ai tempi da rispettare, agli orari, alla fretta e al ritardo, già da piccoli li programmavano sti poveri stronzi che manco la gioia di crescere c’avrebbero avuto, ammesso che crescere fosse una gioia e subito se li sarebbero sbranati, c’erano dei ghigni in giro, di gente che non aspettava altro che carne fresca da addentare, ci ripensavo a quanto fossi stato preso per il culo, nel corso degli anni, in ogni singolo aspetto della mia vita sociale: la scuola, la coppia, la famiglia, il lavoro, tutto quanto era stato un mediocre teatrino di strada, con attori incapaci a rendere reali le loro parti - stanchi, svogliati - ti ci mettevano da quando nascevi dentro a quei ruoli e alcuni se li portavano avanti fino a quando crepavano, credendoci pure a tutta sta farsa e i bambini camminavano, le madri che urlavano, impazzite, isteriche, perché era tardi, perché si dovevano sbrigare, altre donne sarebbero uscite la sera, a caccia, le stupide prede maschili che strisciavano tra le ombre dei muri, poveri derelitti, falliti, vittime di un pezzo di carne che gli pendeva tra le gambe, i coglioni che si gonfiavano, non era una bella prospettiva portarsi sto peso appresso per tanti, lunghi anni, ci avevano provato con le mogli, le fidanzate, le mignotte e le amanti, come se servisse a qualcosa - c’era un uomo che viveva in una tenda, vicino ad un tunnel, dalle parti della stazione, lo vedevo al mattino e poi di nuovo quando il cielo si faceva scuro, seduto a bere vino, mi piaceva il suo volto, non ci siamo mai parlati però lo salutavo sempre con lo sguardo ogni volta che gli passavo davanti - una cornice dorata buttata in un cassonetto, l’eco lontana di bambine dagli occhi a mandorla, che ridono leggere nei loro vestitini di carta.


venerdì 26 febbraio 2016

homesick #30

Le giornate di inverno passavano veloci, con la loro luce e i tramonti, se c’era il sole uscivo dall’ufficio verso l’ora di pranzo e facevo delle passeggiate, senza nessuna direzione, come in una lunga e anarchica riflessione spirituale, se non aveva nessuna importanza dove saremmo arrivati allo stesso modo non ne aveva alcuna la strada che avremmo scelto. 

Le pareti nude dei palazzi, senza finestre, superfici verticali di pura vernice, gialli fuggiti da qualche quadro di Van Gogh o De Chirico, i miserabili che strisciavano lungo l’asfalto, spingendo le loro carrozzine sventrate, dove mettevano tutto quello che trovavano dentro i cassonetti, erano in fila, uno dietro l’altro, una processione medievale di maschere sporche e invecchiate, le linee impresse nella pelle, scavate nel legno del viso, la mano di qualche divinità aveva modellato espressioni di disperazione e demenza sui quei volti, loro passavano, gli sguardi bassi, gli occhi che si illuminavano dentro i cassonetti, oggetti abbandonati, scacciati dalla vita di qualcuno, diventavano improvvisamente oro, le mani che afferravano, tiravano fuori, scartavano, posavano e ammucchiavano e ancora lungo le strade, nuovi codici e alfabeti da imparare, i segni lanciati da altri occhi, l’intesa, rispondere a quegli sguardi, oppure tirare dritto, non c’era bisogno di parole, anche perché i bisogni da soddisfare erano noti a tutti, quindi non c’era troppo da girarci  intorno, era un nuovo modo di vivere, di percepire le cose, di precipitare, lasciarsi andare, cadere e oltrepassare il limite, un nuovo modo di sentire, di vedere le emozioni starsene buone, innocue, il fumo delle sigarette nei polmoni, come una nebbia interiore, pesante e bianca, che nasconde i sentimenti, li tiene in disparte e loro non vengono più a cercarti, a ferirti, stati d’animo d’inverno, luminosi e oscuri, letargici e lenti. 

Me ne stavo in bilico sul presente, un filo teso tra lo splendore del giorno e l’arrivo della notte, non c’era nessun luogo dove andare, camminare in equilibrio, senza guardare in basso, tra le bugie delle stelle e quelle dei tuoi occhi. 


giovedì 25 febbraio 2016

Lakshamana (2011)

durante la notte si aprivano le porte di un altro universo, nel quale entravo attraverso i sogni o il libero susseguirsi dei pensieri, scivolavo piano in una dimensione interiore che non poteva esistere quando la luce del giorno illuminava e mostrava le illusioni del mondo esterno.

in questa dimensione l’ordine segreto degli eventi, delle cose, dello scorrere del tempo seguiva altre logiche, a volte misteriose, ma che sentivo più simili alla mia essenza. incontravo le persone che conoscevo, quelle che non vedevo da anni, gli amici perduti.

dicevo a lorenzo che non me lo meritavo, mentre scappavo in lacrime lungo un corridoio, mi aveva detto che se l’era scopata e non era stato questo ad avermi ferito ma le bugie che lei mi aveva raccontato, diceva ellis che loro erano tutte delle streghe, poi lorenzo mi ha abbracciato e ho sentito il suo corpo e mi sono svegliato e nell’attimo immediatamente dopo, quello del passaggio dal sogno alla realtà(?), ho capito di averlo amato, quando ero un ragazzo, di averlo amato veramente, in maniera spirituale, nell’unica maniera in cui l’amore è possibile, perché quando siamo giovani non abbiamo abbastanza esperienza per dare il giusto nome alle nostre emozioni? non lo sapevo, ma lui tornava a farmi visita e io lo 
lasciavo entrare ed era bello vederlo di nuovo e provare ancora quelle sensazioni che da tempo erano svanite nel mio passato.

e non c’era più distinzione tra dentro e fuori, scivolavo nell’inconscio dove tutto era possibile, nuovi mondi prendevano forma e in quelle ore che mi separavano dall’alba potevo vivere altre vite, altre esistenze ed emozionarmi di tutte quelle cose che le persone non avevano il coraggio di condividere con me nel mondo delle apparenze.

quando la luce lentamente nasceva tornavo verso il sogno vuoto dell’universo, come lo chiamava jack e piano mi alzavo, respiravo e ringraziavo per questo meraviglioso dono, avevo sconfitto la paura, appeso ad una croce, giovane e bellissimo cristo, i miei occhi erano puri, il mio amore non aveva più confini.

fuggi le donne che catturano il tuo cuore, appena le riconosci fuggi lontano da loro, dimenticale, la vita sarà solo un viaggio doloroso, impara a guardare oltre le stupide e appetitose apparenze, impara a guardare oltre le loro forme e le loro promesse, non sono le immagini dei corpi nudi in atti sessuali lungo le mura del tempio di Lakshmana quelle da cui imparerai qualcosa ma l’assoluto silenzio che troverai al suo interno.

mercoledì 24 febbraio 2016

Santiago #12

Incontrai Teresa in un sogno, il giorno prima che tornasse da una vacanza, non l’avevo mai vista di persona. Avevo dormito insieme a Maria, in un letto stretto, eravamo nella casa dei suoi genitori, fuori Linares, un luogo solitario, vicino ad una scuola. Ci si arrivava con una stradina sterrata, ai suoi bordi crescevano alti alberi dalle chiome ondeggianti nel cielo d’estate. Quando mi svegliai sentii subito la voce di Catalina, stava entrando in bagno. Poi anche le altre voci, si seguivano, mischiavano, sovrapponevano, riempivano gli angoli della mia mente in maniera ipnotica. La casa era piena di oggetti antichi, quadri, tavoli, armadi, divani, tutte cose che appartenevano ad un’altra epoca, di cui mantenevano gli odori e il fascino. Il tavolo dove avevamo mangiato la sera prima era ancora pieno di bottiglie e bicchieri, album di fotografie, avanzi di cibo, la luce filtrava dalle finestre, obliqua, a toccare il pavimento, già faceva caldo e Maria stava preparando la colazione, pane, palta, caffè, formaggio fresco, tè e frutta.

Ci dirigemmo a casa di uno zio di Maria, Giancarlo guidava e parlava, la sua voce era accogliente, solo che non riuscivo a seguire il flusso delle parole, ogni tanto avevo bisogno di momenti di pausa, di silenzio, per connettermi con quello che avevo intorno, il paesaggio che si muoveva fuori dal finestrino della macchina, la terra, i cespugli, gli arbusti, le montagne in lontananza.

La casa di Franco era molto grande, in uno stato di leggero abbandono e per questo ancora più bella, c’erano le tracce di un tempo passato, di altre vite, dei ricordi, della polvere che si posa su quello che resta quando le persone amate iniziano a svanire, abbiamo mangiato nel grande giardino, sotto i filari dell’uva, Giancarlo preparava un agnello e pensava alla carne alla brace, io bevevo birra, per iniziare, mi guardavo intorno, mi sentivo bene, il calore del sole e dell’aria, gli altri parlavano e li ascoltavo, alcune parole mi sfuggivano ma il senso dei discorsi mi era sempre chiaro.

Facemmo un bagno in piscina. Ero abbastanza ubriaco.

C’erano odori e sensazioni, la mia pelle bagnata che si asciugava, era un momento meraviglioso, sentire l’acqua che evaporava, la pelle che perdeva quella sensazione di freddo per diventare di nuovo calda. Qualcuno mi offrì un altro cocktail a base di pisco, lo bevvi senza pensarci.

Nel viaggio di ritorno mi addormentai, arrivammo alla casa dei genitori di Maria che era notte. Le cime degli alberi si muovevano nell’aria scura, sfiorando le stelle. Rimasi pochi minuti in giardino, da solo, a guardarle.

Quelle voci luminose continuavano a chiamarmi.






lunedì 22 febbraio 2016

homesick #29

Alcune volte bisognava arrivare alla sera cercando di non impazzire, le ore lì dentro, al chiuso, senza aria, le pareti rosa e i flash di luce bianca, le loro bocche che parlavano o cercavano di emettere suoni senza significato, era dura, ma anche divertente, quando ti lasciavi andare e ridevi con loro, ma non poteva durare, era una messinscena di dementi, c’era il rischio di far cadere la ragione da qualche parte e lasciarcela, perché bisognava saltarci dentro a quelle teste e vedere cosa c’era e in molte occasioni non ci trovavo nulla, nulla a cui potessi aggrapparmi per uno scambio, un dialogo, ci parlavamo con gli occhi, con i gesti, con gli sguardi e per me andava pure bene ma poi fuori c’erano altre persone, altri lupi, altri ghigni e i miei ragazzi se li sarebbero divorati, tra le strade, nei luoghi di lavoro e due parole per difendersi e dire come la pensavano se le dovevano pure imparare e io dovevo trovare il modo per insegnargliele, ma in alcuni giorni c’avevi i cazzi tuoi in testa, magari la voglia di startene con le palle in mano a massaggiartele e non c’avevi voglia di vedere quelle facce, ogni mattina erano lì, la dovevano imparare sta lingua e tu eri stato assunto per questo, ma le prospettive finivano sempre per ridursi, quei muri finivano per uccidere qualsiasi fantasia, mi sentivo stanco, senza energie, non c’avevo nulla da dargli, era una teatro, una farsa, ci stavano facendo uscire fuori di testa, ce la ridevamo anche forte alcune mattine, che c’avevi ancora i postumi del vino o dell’hashish, la testa era leggera, ci ridevi con loro e loro ridevano con te, però sempre alla sera bisognava arrivare, poi i giorni diventavano tutti uguali, l’attesa della notte per essere libero, quei muri dovevano crollare, non mi restava altro che iniziare a prenderli a picconate.


domenica 21 febbraio 2016

le alte torri #33



Rivoluzionari sudamericani in esilio, seduti dentro stanze spoglie, parlando, in spagnolo, davanti a videocamere che registravano e trasmettevano i loro messaggi, l’utopia terzomondista infettava il mondo delle telecomunicazioni mediatiche, si diffondevano messaggi e comunicati, parole in codice, le bandiere che sventolavano nel cielo de L’Avana, in un sogno di deserto e vento avevo incontrato Rafael, ero sdraiato vicino ad un enorme cactus, gli occhi di un ape gigante mi scrutavano nella mente, dormivo ed ero sveglio, giorno e notte si alternavano con i respiri, lui era arrivato su un pick-up, da lontano avevo visto la sabbia alzarsi, mentre il motore ronzava nelle mie orecchie, un enorme metallico rumore di insetto, i fari come occhi caledoscopici, il pick-up si era fermato, lui era sceso, si era avvicinato e mi aveva consegnato una penna di un uccello sconosciuto, l’avevo presa, poi Rafael aveva lanciato dei sassi per terra, si era accovacciato sui talloni e li aveva guardati, scrutandoli non so per quanto tempo, poi mi aveva detto di salire sul pick-up, parlavamo in spagnolo, poche parole, il discorso poteva avvenire diretamente nelle nostre teste, però la sua voce, quando usciva dalle labbra e si mischiava con il vento aveva un suono dolce e armonioso, simile ad un antico canto - ci dirigemmo verso un pueblo del deserto, entrammo in un bar, con tavoli di legno e alcune persone sedute a bere birra, ordinammo anche noi, poi discutemmo a lungo, delle tattiche di guerriglia, del commercio di droga per procurarsi i soldi, delle istanze rivoluzionarie, non tutto mi interessava, Rafael mi guardava negli occhi, i suoi erano di ossidiana, poi tirò fuori un sacchetto e me lo diede, disse che era pieno di polvere di yopo, dovevo tirarla attraverso una lunga cannuccia con il naso, chiesi se quello era il luogo giusto, mi disse di no, salimmo di nuovo sul suo pick up e ci dirigemmo verso il deserto, all’interno di una capanna, nel buio, fra miliardi di stelle, mi fece sedere e lo vidi preparare la sostanza, la rivoluzione stava arrivando, nessuno sapeva dove sarebbe esplosa, c’erno migliaia di nuclei sparsi per il mondo, pronti ad entrare in azione, a connettersi tra di loro e poi a disperdersi, le nuove tattiche di guerriglia avrebbero interessato soprattutto le metropoli, gli chiesi, come ultima domanda, se conoscesse Pavel L., lui sorrise e non disse nulla, mi passò la lunga cannuccia e io tirai, il mondo si capovolse all’istante, l’interno della capanna girava su stesso, i miei occhi di ape iniziarono a ronzare, mi allungai come un orizzonte senza confine, linea dritta e circonferenza improvvisa, ruotavo in ogni dimensione possibile, entrai all’interno della scatola cranica, viaggiando in maniera fulminea tra i neuroni del cervello, esplosioni e scariche elettriche come fulmini nel cielo, tuoni capovolti, flash di luce azzurrina saettavano dagli occhi di Rafael, sdraiati, mi disse, sdraiati e ascoltami. Le connessioni ottiche tra le varie cellule, pronte agli attacchi, alla distruzione dell’ordine sociale costituito. Imparai molto quella notte, tutte quelle tecniche sarebbero servite a qualcosa, non in quel deserto di sogno, ma tra le strade del mio quartiere e poi della città, vidi la alte torri bruciare, le vidi splendenti di luce propria, vidi le verdi bandiere e i canti arabi, le danze sudamericane e le scariche dei mitra, le lacrime di gioia dei miserabili, mentre ballavano tenendosi per mano, vidi tutto questo e me stesso su una delle torri, sorridente e sereno, guardare la luce morire nel cielo dell’ovest, le mani dietro la schiena a stringere un’arma di sabbia e vento.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...