martedì 25 settembre 2012

senza titolo


dava piccoli morsi
al tappo della bottiglia
come fosse la punta di un
cazzo
e mi aveva detto che non era
divertente farsi sbattere
da uomini arrapati
nei bordelli della Libia
l’hai conosciuta presto
la vita
essere trattata come
una cosa
non tanto diversa
da un’auto, un televisore,
un forno a microonde
vederteli addosso
a sbattere e venire
come fosse qualcosa
di umano
erano solo cani in calore
mentre cercavi
nel vuoto
qualcosa a cui aggrapparti
per non cadere
qualcosa che non fosse
uno stupido pezzo di carne
qualcosa che avesse occhi e mani e un cuore
qualcuno che ti chiamasse per nome
nelle notti silenziose
stringendoti piano
come una figlia
una madre
una donna
da amare.

giovedì 20 settembre 2012

industrial #10


Pensare come un ragno, arrampicandosi sui muri. Le ragnatele bluastre a collegare i pensieri in una rete di intuizioni febbrili, scoprire le tue prede mentali avvolte in bozzoli di paranoie, intrappolate, rinchiuse, le prede finiscono per morire ma sono la tua unica fonte di alimentazione. Pensare come un ragno, saltare nel vuoto rimanendo aggrappato ad un unico filo, un unico pensiero, per salire o scendere, per cambiare i piani prospettici, un filo da cui partono altri fili, un pensiero da cui partono altri pensieri, geometriche strutture, esagoni, ottagoni, lati sempre più brevi, la ricerca dell’infinito, di dio, della circonferenza bianca, l’alchimia descritta negli antichi libri di Hassan-I-Sabbath.
La pillola gialla mi dondolava sulla lingua, mentre ero seduto all’interno di una stanza piena di cavi elettrici amputati, buchi nelle pareti annerite, pezzi di vetro impazziti sul pavimento, feci scendere la pillola lungo la gola, un viaggio sicuro fino allo stomaco dove si sarebbe sciolta. Il rapido cambio delle prospettive, le pareti ruotavano secondo i miei comandi mentali, mantenevo sempre una posizione eretta, ero il centro di gravità di quella visione, di quel mondo, potevo camminare da una parete all’altra, senza cadere, un insetto, un ragno che esplora il suo territorio, mi masturbai davanti alla corolla carnosa di un fiore tropicale rosso. Dalla punta del mio pene esplosero ragnatele bluastre che si appiccicarono sulla corolla del fiore, colando poi dentro i pistilli.
Ridiscesi al suolo, i cavi elettrici amputati si rigeneravano, come code di lucertola. 

venerdì 14 settembre 2012

...

Allora scivolò piano fra le mie braccia che l'aspettavano, radiosa, rilassata, carezzandomi con i suoi teneri, misteriosi, impuri, indifferenti occhi di crepuscolo - né più né meno come la più dozzinale delle puttanelle. Perché le ninfette imitano loro - mentre noi moriamo tra i lamenti.

vladimir nobokov
lolita

mercoledì 12 settembre 2012

industrial #9


Crescevano ragnatele nella mente, potevo vederne i filamenti bluastri, esseri informi e viscidi, con volti quasi umani, mandibole scivolose da cui usciva una sostanza lattiginosa, simile a sperma. Gli operai durante le ore di lavoro, l’energia che usciva fuori dai loro organi sessuali, trasformata in elettricità blu. Erano i residui dei pensieri cattivi e paranoici a dare forma alle ragnatele e i volti degli insetti giganti cambiavano continuamente fisionomia, erano quelli delle persone orribili incontrate durante le lunghe ore della vita normale e la mente, a volte, marciva, intrappolata in quelle gabbie molli e violacee e poi le voci, si insinuavano ronzando tra i pensieri, distorsioni sonore e rumore bianco, che assumeva nuove sfumature, ogni volta che ingerivo una pillola. 
E gli antichi maestri, a differenza delle macchine e del loro complicato funzionamento, che ancora non ero riuscito a comprendere del tutto, insegnavano il silenzio e il vuoto della mente e lo splendore del diamante della realtà. Migliaia di milioni di riflessi che noi chiamavamo il reale, la potenza delle immagini e dei suoni era possibile solo se la mente era libera dal pensiero, dalla ragione, dal virus della parola, allora le percezioni ritornavano come quelle degli uomini preistorici, esplosioni psilocibiniche di colori, l’adorazione del dio-fungo, della grande-cappella-rossa, seduto davanti ai silos che un tempo contenevano gas esplosivi o acqua o soluzioni chimiche ancora da sperimentare. La Fabbrica, oggi, aveva un colore antico, ocra, seppia, come nelle fotografie di qualche folle alchimista di inizio secolo, che celebrava rituali su lastre lucide, sensibilizzate con cloruro d’argento, le misteriose emulsioni che le trasformavano in immagini. 
Il film della mente girava a velocità ridotta, 12 fotogrammi al secondo, i suoni erano dilatati e le ragnatele, lentamente, si formavano. Ero nudo davanti ai silos, il cazzo duro e rosso e pulsante, la cerimonia del dio fungo stava avendo luogo. Guardai il cielo. Era rosso. Esplose una nube, con la forma di un fungo. L’aria divenne immobile. La mia pelle prese fuoco, bruciai, divenni polvere e fui disperso nel vento. Il suono atomico del silenzio. Dentro alla Fabbrica lo splendore della luce era assoluto. 
Divenne notte, mi preparai un tè. Bevvi lentamente, presi dei fogli con i disegni delle macchine, li studiai un poco, poi mi addormentai. 

Le ragnatele erano sparite. 

venerdì 7 settembre 2012

industrial #8


Tempi e spazi in frantumi. Un’immagine mentale, un frame mentale, un fermo-immagine mentale proiettato su una lastra di vetro ancora intatta. Un’immagine casuale, non elaborata, della vita passata. Proiettata su una lastra di vetro. La lastra viene frantumata, sul pavimento di cemento screpolato, i frammenti di vetro si spargono senza fare rumore in strutture caotiche. Lo studio della teoria e la negazione della pratica. L’uomo si chinò verso i frantumi e li raccolse a mani nude, dai tagli provocati sulla pelle usciva una sostanza elettrica. Ricomporre i frammenti per tornare all’origine, all’unità iniziale di quello spazio e di quel tempo casuale. 
La parola era un virus, sosteneva il vecchio Lee. L’immagine era un virus. Una rapida riflessione sui mezzi di comunicazione moderni. Gli uomini e le donne di quel tempo non capirono in anticipo la pericolosità e la nocività dei portatili, dei palmari, dei computer, degli schermi. Ogni parola e ogni immagine percepita come notizia era un virus che infettava il cervello, obbligando la mente a una connessione delle sinapsi su eventi mondiali e globali del tutto inventati. L’informazione era continua, incessante. La moltitudine di informazioni era un bombardamento continuo sulla mente. Paranoie politiche, sociali e religiose. Dipendenza dal consumo, dall’immagine del consumo. Ossessione pornografica per il dettaglio. 
Nella Fabbrica gli operai erano connessi alle macchine tramite stimolatori sessuali. La loro energia era assorbita dalle macchine per il loro funzionamento. Lo sperma veniva tenuto all’interno dei testicoli degli operai per una settimana e poi veniva estratto. In quel momento si toccava l’apice di produzione energetica. Gli operai venivano stimolati tramite l’assunzione di pillole sperimentali, scariche elettriche, strumenti plastici e vegetali. Lo stato di tensione erotica prodotto nel corpo veniva trasformato in energia per le macchine. La produzione di nuovi farmaci, sperimentati sugli stessi operai. Nuovi mondi, nuove percezioni. Ennesime dimensioni spazio-temporali da esplorare. 
La carne non era più un limite. La materia era stata sezionata e analizzata. Diversi piani temporali potevano coesistere nella stessa immagine. Il corpo di una donna racchiuso in una sfera di vetro illuminata. Le emozioni erano state riprodotte e trasformate in impulsi elettrici. Gli schermi proiettavano immagini pornografiche a 48 fotogrammi al secondo, le colonne sonore mandavano messaggi in basse frequenze che lavoravano direttamente sulle parti atrofizzate del cervello, nel tentativo, a volte riuscito, di risvegliarle. 

L’uomo prese la pistola e se la puntò alla tempia. Fece fuoco. Freddo silenzio dell’aurora del mondo. 

martedì 4 settembre 2012

industrial #7


Era in piedi, in una delle sale del terzo piano. Camminò fino ad una parete, meno rovinata delle altre, con una parte di intonaco ancora intatta. Toccò con la mano la superficie liscia della parete. Sembrava che in quella zona di muro la distruzione non fosse passata. Il caos aveva risparmiato quella superficie bianca. Una superficie rettangolare e geometrica. L’uomo si allontanò di alcuni metri. Poi rimase in silenzio. E assunse una pillola arancione. 
Il suo occhio sinistro iniziò a proiettare sulla superficie bianca un fascio di luce, che appena toccò la parete si espanse in immagini, l’occhio destro guardava. L’occhio sinistro proiettava, l’occhio destro guardava. 
Le immagini della vita fuori dalla Fabbrica, della vita passata. Dei giorni tutti uguali, delle azioni ripetute. I giorni di Svegliati! Lavati! Vestiti! Vai a lavorare! I giorni degli ordini e della vita scritta dalla mano di altre persone. Rivide i suoi vestiti, la sua casa, la macchina. Rivide sua moglie. Un montaggio veloce di dettagli. Le labbra. Gli occhi. Il naso. Le gambe. Dissolvenze dei loro momenti più intimi. Il mare racchiuso in una sfera di vetro. 
La morte portava maschere allegre per non farsi riconoscere e il diavolo vestiva sempre di bianco. Aveva una teoria sulle immagini del diavolo nella società dei consumi, quella più bella si poteva trovare sulla copertina di un album dei Beatles, Abbey Road. John Lennon era il primo della fila ad attraversare la strada sulle strisce. John Lennon era vestito interamente di bianco. John Lennon era il diavolo. 
Immagini di atti sessuali suoi e di sconosciuti. Immagini di pratiche sadomasochistiche. Donne in uniforme e in divisa. Stivali neri con i tacchi alti. Il cazzo gli venne duro. Immagini di notti solitarie, immagini del deserto. Lo sciamano danzava intorno al fuoco al ritmo dei tamburi, lentamente entrava in un altro mondo, attraverso l’assunzione di sostanze sacre, la fatica, la musica, i ritmi ossessivi. Lo sciamano compieva movimenti rituali e aveva una maschera da uccello con un lungo becco e una costume piumato. Lo sciamano urlò, in maniera primitiva, disarticolata. 

L’uomo venne in raggi di luce. La proiezione era finita. La Fabbrica, silenziosamente, respirava con lui. 

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...