sabato 28 febbraio 2015

dream #7

Barbara mi aveva chiamato da sotto le lenzuola, eravamo in una stanza rettangolare, in penombra, fuori era notte, mi sono avvicinato al letto, lei mi ha baciato, le sue labbra erano rosse e morbide, mi sono sdraiato al suo fianco, ho seguito il suo sguardo, che si voltava verso destra, verso una finestra, fuori c’era un uomo nudo, il suo uomo, il pene morbido sotto i riflessi della luna, lui è entrato nella stanza, mi sono alzato, l’ho salutato, gli ho chiesto se voleva fumare un po’ di hashish, poi ci siamo di nuovo sdraiati, tutti e tre sul letto, lei mi ha baciato un’altra volta, sulle labbra, lui ci guardava silenzioso.


giovedì 26 febbraio 2015

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Spesso riflettevo sul perché i giovani erano così miseri. Non riuscivano ad avere gioia di niente. Un motorino a sedici anni, una macchina a diciotto: questo era quasi ovvio. E se questo non c'era allora uno era un essere inferiore. Anche per me, nei miei sogni, era stato naturale pensare che un giorno avrei avuto un appartamento e una macchina. Ma ammazzarsi di lavoro per un appartamento, per un nuovo divano, come aveva fatto mia madre, questo non esisteva. Questi erano stati gli ideali sorpassati dei nostri genitori: vivere per poter tirar su dei soldi. Per me, e credo anche per molti altri, quel paio di cose materiali erano il presupposto minimo per vivere. Poi doveva esserci qualche altra cosa. esattamente quello che dà un significato alla vita. E questo non si vedeva. Un paio a scuola mia, tra cui mi ci mettevo anch'io, erano ancora la ricerca di quel qualcosa che dà significato alla vita.

Christiane F.
Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino

martedì 24 febbraio 2015

freewheelin' #20

I miserabili uscivano di notte, con il buio, scivolavano lungo le pareti, trascinando i loro carrelli della spesa, in fila, arrivavano vicino ad un cassonetto, accendevano le piccole luci elettriche allacciate sulla fronte, i fasci luminosi, deboli e tremolanti entravano nelle bocche aperte dei cassonetti, illuminando stomaci fetidi e metallici, pieni di rimasugli di plastica, vetro, oggetti rotti, avanzi si cibo, i miserabili cercavano, spostavano, scavavano, con un lungo spadino ricurvo riuscivano a spingersi in profondità, quando qualcosa li interessava la tiravano fuori e la mettevano dentro il carrello della spesa o in un passeggino, poi continuavano, verso il cassonetto successivo, così ogni notte, una lenta processione di uomini e donne vestiti di stracci, le bocche sdentate, l’odore dell’alcol che impregnava corpi e vestiti, parlavano lingue sconosciute, i volti ghignanti si dissolvevano all’alba nel fumo delle loro sigarette.

Il bambino camminava sul terrazzo, sotto un cielo nuvoloso e un sole che si divertiva a nascondersi, il bambino aveva in mano una chiave, con un pendaglio colorato ad una estremità, avvicinava la chiave a qualsiasi cosa, vasi, piante, sedie, tavoli, cercando dove infilarla, poi continuava a camminare, ogni tanto mi guardava negli occhi, lo seguivo, senza intervenire, il bambino è entrato in una stanza ed è arrivato fino ad un comodino appoggiato ad un muro, mi ha guardato, ha sorriso, ha infilato la chiave nella piccola serratura del comodino, si è seduto per terra, in silenzio, mi sono avvicinato, ho girato la chiave, seduti su una spiaggia guardavamo insieme il mare fuggire.



sabato 21 febbraio 2015

Ausgang #5


I primi raggi di sole, le lancette dell’orologio del campanile risplendono d’oro, i riflessi sui vetri creano sovrapposizioni di immagini, dissolvenze incrociate di cielo, nuvole, case, alberi, ciminiere, i giochi delle ombre su un muro della stanza, una testa chinata sul tavolo, una mano che scrive, le voci che cantano, nelle altre stanze, il ritratto di una donna nuda che si lava, il segreto di quel corpo che il pittore svela, le scale armoniche suonate su un piano, tra gli echi delle risate della notte precedente e il rumore di un bicchiere in frantumi – se non sarò io, ci sarà un’altra donna accanto a te – camminavo per strade sconosciute, da solo, per la prima volta, creavo la mappa di quel luogo nella mente, punti di riferimento: i due campanili, se guardavo in alto, li vedevo; da lontano, mi bastava cercarli. Sono andato avanti ed è apparso un fiume, gli alberi nudi e vecchi, neri e silenziosi e oltre, le figure geometriche delle fabbriche che rimodellavano il paesaggio e le mie stesse percezioni, camminavo piano e vedevo, in maniera nitida, come ogni cosa fosse collegata, come la stessa vita, la stessa luce del mondo fosse uguale in tutto, nei fili d’erba che tremavano nell’aria, nelle pellicce dei cani che correvano, nell’acqua del fiume che scorreva, l’essenza era lì, ovunque, dentro e fuori di me, respiravo piano, immerso in questa coscienza, i pensieri fluivano, quando si bloccavano io mi fermavo con loro, poi continuavo a camminare, mi sono avvicinato al fiume, c’erano degli uccelli sulla sua superficie e dei cigni, loro sono scivolati verso di me, ho visto le piume brillare, per un momento, quando le nuvole si sono aperte, brillare in una maniera meravigliosa, quei cigni sembravano fatti di luce, mi sono accovacciato sui talloni e li ho guardati a lungo, i loro colli compivano acrobazie solo per me, sono tornato verso casa, ritrovando la strada, seguendo i punti di riferimento, ma cosa importa dove andare se ogni luogo è uguale e diverso, se ogni vita è possibile, se ogni decisione è inutile, cosa importa dove andare se ogni strada continua a portarmi dentro questo mistero?

martedì 17 febbraio 2015

...

Le necessità materiali sono ancora la causa principale di molti conflitti e problemi. Affitti alti e aumento del costo della vita costringono ad un carico di lavoro sempre maggiore, al doppio reddito familiare, cioè al lavoro dell'uomo e della donna. E così la vita delle persone è ingabbiata qui in uno stato di costrizione insolubile, la costrizione a dover fornire una quantità sempre maggiore di forza vitale per il lavoro senza ricavarne vera felicità e benessere.
La droga è stato uno dei mezzi peggiore per derubare questi individui della coscienza di appartenere alla categoria delle vittime dello sviluppo industriale. Già da tempo l'alcol svolge questa funzione all'interno della classe operaria. Ora, negli ultimi decenni, si sono aggiunti altri stupefacenti: gli psicofarmaci, che costituiscono un affare legale molto renumerativo, e le droghe come l'eroina e la cocaina, che sono illegali, ma non per questo meno renumerative.
Strano in realtà non è tanto il fatto che molte persone facciano uso di droghe, ma che molti, malgrado i massicci problemi esistenziali, non ne facciano uso. E questo vale anche soprattutto per i giovani. A guardare la loro situazione non bisognerebbe stupirsi in realtà del crescente abuso di droghe, della crescente criminalità, dell'aumento della violenza e delle culture fascistoidi tra i giovani della classe operaia.
Non può essere seriamente contestato che tra aumento di droga tra i giovani della classe operaia e peggioramento massiccio delle loro condizioni di vita esista un nesso che nel frattempo è stato perfettamente utilizzato a scopi commerciali.

renate schipke
da 
noi, i ragazzi dello zoo di berlino

sabato 14 febbraio 2015

homesick #18

Te la offrivano pure un’opportunità, perché qualcuno parlava con un’altra persona e allora alcune porte, per coincidenza o fortuna, si aprivano e ci entravi dentro a questa nuova vita, per vedere come era, perché quella vecchia era andata distrutta o non ti stava più bene e pensavi che un cambiamento sarebbe stato certamente migliore dell’apatia che ti stagnava dentro l’anima e non dimenticarti il dolore, che saliva e scendeva, oscura marea, a volte fino ad affogarti e gli ultimi respiri che rantolavano fuori insieme alle lacrime, le preghiere recitate in silenzio ai bordi di un letto, ci fosse stata una punizione sarebbe già stato qualcosa di reale e invece era solo la litania mentale di una stupida agonia. Una corona di spine in testa ti sembrava un premio irraggiungibile.


E ci mettevano poco le cose a cambiare, come ci avrebbero messo poco a ritornare le stesse di prima. Ti abituavi ai loro orari, agli schemi di comportamento, alle procedure d’ufficio. Giorno dopo giorno. Era un allenamento alla normalità, a quel tipo di vita che avevano costruito su misura per la nostra infelicità. C’avevo una gran curiosità di vederla, questa vita adulta, con i suoi meccanismi e le sue tappe obbligate. Il fidanzamento, il matrimonio, il lavoro, la casa, i figli. I più stupidi seguivano pure un ordine nell’ottenere tutte queste merdate, altri si affidavano al caso ma sempre inculati sarebbero rimasti. Io ci andavo cauto, a piccoli passi, me le scoprivo un po’ per volta tutte le meschinità delle persone e le bugie che si raccontavano per portarla avanti ‘sta farsa e li avevo visti gli amici e le amiche che ci si rinchiudevano per bene dentro al teatrino dell’esistenza, con i vestiti buoni e i nuovi tagli di capelli e un po’ alla volta me li sono tolti dai coglioni, che intanto di quelle vite, di quei rapporti non sapevo più che cazzo farmene. Pure a un paio di matrimoni mi era toccato andare, pure come testimone ci ero stato, con il vestito comprato per l’occasione e mai più messo, me ne sono stato in silenzio durante la celebrazione, gli altri che pregavano e cantavano. Entrambi i giorni li ho finiti ubriaco fradicio. 


E già sono cinque anni che ci sto dentro a ‘sta vita, l’ho studiata bene, l’ho visto lo scorrere dei giorni dal fondo della stanza senza finestre, ci si abitua a tutto, è incredibile, se non si mette un limite alle porcherie ci si abitua a tutto, alle condizioni scadenti, alla banalità dei rapporti, ai sorrisi e alle risate finte, alle dinamiche di gruppo, ai pranzi, ai caffè e alle colazioni e gli altri che continuano a parlare e a te, dopo un po’, non è che te ne freghi un granché delle cose che dicono, anzi, le smetti proprio di sentire tutte ‘ste cagate. Poi ci sono queste donne con le sigarette in bocca, insoddisfatte, che ti raccontano le loro giornate libere o come passano il tempo lontane dal lavoro, non è che sia un gran bello spettacolo la vita degli altri, soprattutto se te ne parlano senza un po’ di fantasia, se te la buttano là, come cenere di un mozzicone che cade per terra, non c’ha interesse il vento a portarsela via figuriamoci qualcuno a raccoglierla.


C’ero rimasto troppo tempo a casa di mia madre e ci avevo messo troppo tempo ad andarmene, ma avevo dovuto curare i tagli sul cuore e avere pure i soldi per trovare un posto in cui non ci fossero troppe rotture di coglioni e con questi ragazzi che m’ero ritrovato tra le mura domestiche le cose andavano pure bene, erano più piccoli di me e quindi pensavano alle droghe e alla fica ed erano divertenti e un po’ lerci, che se ogni tanto non mi ricordavo io di pulire i pavimenti e il cesso non so a quale grado di zozzeria si poteva giungere. E così c’avevo una stanza condivisa e un lavoro e non vedevo l’ora di liberarmi da tutto questo e tornare a vagabondare, stare un’intera giornata senza fare nulla o mettermi di nuovo a cercare, qualcosa di diverso, luoghi sconosciuti, un futuro da inventare, che quando non ti bastava il presente, perché lo riempivi di stupide paure, c’era sempre il futuro a cui pensare, con l’ingenua speranza che sarebbe stato qualcosa di migliore, ma non era quello che volevo, volevo riprendermi l’oggi e dimenticare il domani, prendere il presente e aggiungerci un altro po’ di tempo e fare questo presente il più lungo possibile e viverci dentro e starci tranquillo, ecco, un posto dove stare tranquillo, in silenzio, in solitudine, lontano dagli altri, era proprio quello che mi serviva. L’opportunità per entrare te la offrivano pure, poi bisognava capire il modo per uscirne fuori, una volta per tutte.


giovedì 12 febbraio 2015

Ausgang #4



La mattina era fredda e scrivevo con una coperta posata sulle spalle e una tazza di caffè bollente, vicino al quaderno. Il viaggio in treno con Wim, mentre mi parlava di fotografia e cinema, le immagini in bianco e nero delle ciminiere, dei ponti, dei piloni di cemento che scorrevano in maniera orizzontale, insieme ai cavi dell’alta tensione, spezzando l’orizzonte, ritmicamente, poi le esplosioni di luce bianca, quando le nuvole si aprivano, i forti contrasti cromatici, le forme del mondo assorbite e riscritte attraverso un obiettivo, l’ossessione per i riflessi e le superfici, un’altra percezione, una realtà a parte, gli insegnamenti di Don Juan, la possibilità cosciente, lucida, di passare da una dimensione ad un’altra, le porte, gli ingressi, i passaggi mentali: droghe, sogni, energia sessuale, Brahman e Atman, scrittura.
La presenza minacciosa e inquietante di un castello, in alto, lo scorrere buio di un fiume, una notte senza stelle, un ponte perso tra due sponde, le mani ghiacciate, i passi lenti e l’eco di un grido animale, ripetuto come un mantra fra le pareti di antichi palazzi.
Camminavo nel quartiere turco, cercando qualcuno che mi vendesse qualche grammo di hashish, non conoscevo la città, le sue piazze e i suoi vicoli e non l’avevo mai visitata in sogno, non incontravo gli occhi di coloro che mi avrebbero dovuto vendere quello che volevo, non c’era nessuna intesa, nessun accordo.
Donne alte, bionde, longilinee, donne come spighe di grano in un campo d’estate, accarezzate dal vento, frementi, i loro occhi azzurri, capaci di rassicurarti, sapevano loro cosa andava fatto, non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Ho parlato con un uomo argentino, in un negozio di vestiti usati degli anni venti e degli anni sessanta, magnifici tempi andati, perduti, l’uomo aveva il mio stesso nome, poteva essere una coincidenza o un sogno, uno dei quelli scritti con l’alfabeto segreto della vita, chiacchierammo un po’, in spagnolo e in italiano, mentre Maria e Catalina si provavano abiti e ridevano tra loro, ogni uomo doveva percorrere la sua strada, per trovare dio o semplicemente sé stesso o tutte e due le cose insieme, i più deboli, quasi tutti, non ce la facevano da soli e avevano bisogno di una guida, un maestro, lo chiamavano Cristo o con tanti altri nomi, dipendeva dal posto dove erano nati, si illudevano, pregavano, quello che avevamo dentro era uguale in ognuno di noi, quello che cambiava era il modo di arrivarci, l’esperienza diretta era necessaria, le parole per raccontarla erano superflue, simboliche. Per me le parole, quelle scritte, erano anche porte per muovermi in altri livelli di coscienza, per vedere e sentire il mondo in maniera diversa, più profonda.

Maria mi aspetta sotto le lenzuola, silenziosa, ancora assonnata, fuori ci sono bambini che gridano, l’azzurro del cielo colora per un attimo le nubi, le dita degli alberi si muovono nell’aria.

domenica 8 febbraio 2015

...

A uno a uno, lessi tutti questi libri che per me erano completamente nuovi. In America non avevo mai letto letteratura erotica. Questi erano i romanzetti che vendevano sulle bancarelle del lungosenna, sulle famose banchine. Nei fui sopraffatta; prima di leggerli ero innocente, ma dopo averli letti non c'era più niente che non sapessi sulle prestazioni sessuali. Alcuni erano scritti bene, altri erano puramente informativi, altri ancora erano sensazionali e indimenticabili. Mi diplomai in cultura erotica.
Questi libri influenzarono la mia visione di Parigi, fino allora puramente letteraria. Mi aprirono gli occhi e i sensi, mi sensibilizzarono, tanto da non farmi più passare inosservate le case chiuse, i quartieri dalle luci rosse, le prostitute sui boulevard, il significato delle tende abbassate nel mezzo del pomeriggio, gli alberghi a ore, il ruolo dei parrucchieri francesi (i grandi procacciatori), e l'accettazione della separazione tra piacere e amore.

Anäis Nin
Diario 1931-1934

giovedì 5 febbraio 2015

Ausgang #3


Distese di nuvole in movimento, le donne dormivano ancora nei loro letti, le ciminiere, in lontananza, creavano nubi artificiali, composizioni di fumo, grigie e informi, che si prendevano il cielo, la notte quelle stesse ciminiere diventavano minacciose, oscure presenze, le luci rossastre che lampeggiavano sulla loro sommità, le inquadrature dei palazzi, i riflessi violacei nel buio, lenti ad alta definizione capaci di cogliere l’essenza di una città che si spoglia delle proprie apparenze, nessuno camminava per le strade e dentro i locali, seduti sugli sgabelli, davanti a bicchieri di birra, uomini e donne si seducevano a vicenda, parlando, per noia o per solitudine, fumando sigarette, lei che accavalla le cosce fasciate di nylon, le sue calze velate e le scarpe con il tacco alto, il montaggio dei dettagli, la macchina da presa che scivola lungo quelle linee, verso il basso, l’uomo già sentiva sulle sue dita il contatto delle calze, sempre più calde, mentre la sua mano risaliva all’interno di quella scura promessa, di quel caldo inganno, le labbra della donna si dischiudono, gli occhi diventano più lucidi e grandi, una risata esplode tra i suoi denti perlacei, risuona argentea nella cavità orale, diventa cristallo nel freddo della notte, fuori dal locale si distrugge in frammenti che cadendo sull’asfalto riecheggiano come il suono ipnotico dei suoi tacchi, la donna cammina, veloce, a misurare il suo desiderio, a ricordare agli altri la sua presenza nel mondo.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...