venerdì 19 luglio 2019

Bryn y Blodau #3

Un mondo grigio, di forme stilizzate, di stampe giapponesi in bianco e nero, le geishe sedute in posizioni rituali, i rami degli alberi si intrecciano in composizioni silenziose, fotografie monocromatiche, pellicole polverizzate dal tempo, i discorsi lasciati a metà, le parole annegate nei flussi dei pensieri, stanze di uffici dimenticati in cui ho ucciso giorni e mesi, gli anni passati che si trasformano in sequenze di immagini oniriche, una nave carica di simbolismi che solca un oceano di conoscenze fluttuanti, questa é la realtà diceva il vecchio uomo seduto davanti ad un muro, poi gli abissi della psiche, quelli dell’amore, ogni storia che abbiamo inventato per rendere fantastiche le nostre esistenze, le candele accese in cattedrali andate distrutte, le statue di divinità obliate senza più gambe, braccia o piedi da adorare, le mute preghiere, gli atti di sottomissione estatica, i fluidi movimenti che seguono le direzioni della rosa dei venti, il tempio di giada che si dischiude fra le tue gambe, le canzoni d’aria, gli arcobaleni di argilla, mani che plasmano il nulla in cerca di un significato tangibile, scie di rugiada sulle finestre dell’infanzia, eravamo punti immobili, vuoti e trasparenti, attraversati da un mistero vivente, lo spazio curvava e qualcuno lo colorava con suoni e armonie interiori, i richiami di paradisi ultraterreni, le tentazioni di quelli artificiali, le lunghe dita danzanti, pallide e nude, lo sguardo pieno di follia lunare, riportiamo ogni cosa nella sua dimensione originale, perforiamola, varchiamo frontiere che ci trascinino oltre i confini di quello che non abbiamo mai avuto il coraggio di essere, migliaia di profughi nei deserti dell’anima, chi accoglierà la nostra fuga? Chi ci proteggerà quando non sapremo neanche più pronunciare il nome del luogo da dove siamo venuti? Li vedo ancora i loro volti e il mio fra di essi, in improvvise e fugaci apparizioni, non è rimasto molto delle memorie scambiate, di quello che ho provato a costruire, l’abbandono e la sconfitta, perché, ragazzo mio, è nell’atto di umiltà di arrendersi che si radica e germoglia il fiore ancora dischiuso di ogni rivolta possibile. 

lunedì 15 luglio 2019

Bryn y Blodau #2

Un’alba che sorge da freddi tessuti onirici metropolitani, una macchina (da scrivere?) lasciata chissà dove, Maria che veniva a trovarmi, un castello da visitare, le rovine del passato, cumuli di pietre ad indicare direzioni svanite nel dischiudersi dei giorni, la pioggia cadeva e Father Tim benediceva la sorgente d’acqua di Bryn yr Blodau. Io, Samara e un gruppo di persone gli eravamo intorno, tutti fradici per il temporale che ci aveva colpito mentre lui spruzzava su di noi le sue benedizioni greco ortodosse, litanie sacre in antichi canti orientali, l’odore dell’incenso che bruciava, quello della mirra, le alte arcate di chiese mai visitate, il silenzio di preghiere rivolte verso nessun dio, Costantinopoli era nascosta da tappeti incandescenti, i fiori d’oppio, i misteriosi raggi energetici di sistemi planetari inesplorati, i libri trovati dentro bauli abbandonati, le iniziali di uomini scomparsi nei vagoni di treni diretti oltre le sterminate steppe della Mongolia, il magic bus parcheggiato accanto al gipsy wagon dove vivevo, Father Tim continuava ad intonare i suoi deliri messianici e apostolici, profeti scheletrici che vagavano impazziti in deserti spirituali, i richiami della montagna, vision quest, quattro, sette, dieci, quattordici giorni di digiuno e astinenza, i meravigliosi ricami dei paramenti sacri, porpora e oro, poi qualcuno ha fermato le parole e il tempo e tutto quello che ogni mito ha da sempre racchiuso e narrato, dentro di sé, la terra da arare, i semi da piantare, il ciclo della vita che osservavo, attimo dopo attimo, stupore dopo stupore, stagione dopo stagione, i millenni che solcavano l’infinito, non c’era nessuna differenza e non ci sarebbe mai stata, lo sapevano le stelle e le maree, gli occhi dei bambini, quelli delle donne, gli sguardi in cui tutto veniva detto senza che le labbra accennassero il minimo movimento, le mani ghiacciate, la morte che scrive, aspetterò la primavera in questo luogo d’incanto, fra le gemme e i sogni di una valle dimenticata.

venerdì 5 luglio 2019

Bryn y Blodau #1

Il diario scritto da un uomo vissuto dentro una carrozza degli zingari, le coperte alle finestre, la piccola stufa in un angolo, le pentole, le candele, i tappeti, il rumore della pioggia, gli alberi ancora spogli, un falco che volteggia nel cielo, i sogni, notte dopo notte, una seconda vita narrata in segmenti onirici, episodi di un film diretto dal subconscio, realtà parallele, giorno dopo giorno, i semi nella terra umida, i vermi, la legna da raccogliere, l’acqua e la sua purezza, una fonte, un sentiero, una casa circolare, i disegni, uno sciamano siberiano, il ritratto di un’anziana donna afghana, il temazcal, i cactus di San Pedro in vasi colorati, gli echi delle preghiere di altri popoli, diverse culture che danzano sulle assi di legno di questa dimora, mangiavamo con le mani, la sera, dopo avere preparato e cucinato il nostro cibo, le donne si riunivano nella yurt, una volta al mese, seguendo le fasi della luna e quelle del loro ciclo, cantavano e il tamburo batteva ipnotico, le storie che Samara raccontava ai propri figli, seduta su una vecchia poltrona sfondata di pelle rossa, facendoli addormentare, i ricordi di mio padre, mentre anche io la ascolto, in silenzio, seduto in disparte, i cesti appesi alle travi del soffitto, le piume di uccelli svaniti dal mondo, perché come loro anche noi siamo destinati a scomparire, tutti noi, a sfumare lentamente come la luce di un tramonto d’estate, la vita ci attraversa in un ciclico divenire, la terra è bagnata, le nuvole disperse, la pioggia ha smesso di cadere.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...