venerdì 28 dicembre 2018

dream #83

Sono in un una casa, insieme a Rafael, lui è in una stanza, seduto su un letto, la televisione accesa, sta scrivendo qualcosa su un quaderno, qualcosa per un esame universitario o un diploma che vuole prendere, lo vedo attraverso una porta aperta, io sono in un’altra stanza, mi avvicino ad un letto, c’é una bustina trasparente sopra le coperte, la prendo, c’è un pò di erba dentro, Rafael entra nella stanza e la bustina mi cade dalle mani, lui m chiede se voglio uscire, gli dico di si, raccolgo un pò dell’erba che è finita sul pavimento e la rimetto nella bustina, poi seguo Rafael.
Camminiamo per una città che non conosco, ogni tanto penso a che ore siano perché ho un appuntamento con Sara vicino alla stazione, non vedo più Rafael, mi siedo accanto ad un muro, sensazioni di ombre e luce.
Sono in una stanza bianca, c’è una lavagna affissa ad una parete con dei piccoli altoparlanti ai lati, è la classe dove insegnavo, non c’è nessuno dentro, esco e cammino per un corridoio, Claudia e Francesca vengono verso di me, dall’altra parte, scambio uno sguardo con Claudia quando mi passa accanto, lei dice qualcosa, mi riconosce, io tiro dritto senza dirle nulla, poi dopo alcuni passi mi giro e  lei  è ancora ferma nel mezzo del corridoio a guardarmi, cammino veloce per raggiungerla, ci abbracciamo, sento qualcosa di caldo sciogliersi nel mio cuore.

Siamo in una stanza e Francesca è sopra di me, sul letto, strusciandosi sopra il mio corpo, ho il cazzo duro, lei mi sta dicendo qualcosa, mi sento eccitato, sto aspettando che arrivi Claudia, è in bagno, sento il rumore dell’acqua. Francesca scompare da qualche parte, mi alzo e trovo Claudia appoggiata ad un muro, in penombra, in un’altra camera, siamo nudi, la abbraccio di nuovo, ho una erezione, il contatto della sua pelle, cominciamo a scopare, in piedi, senza parlare, solo quel movimento fluido, oscillante, dei nostri bacini, fino a quando ci dissolviamo nel vuoto di questo mondo.

giovedì 27 dicembre 2018

Aberystwyth #10

Il più delle volte, durante la notte, mi ritrovavo in luoghi che non erano gli stessi in cui mi ero addormentato. Era probabile che il mio corpo continuasse a rimanere disteso in una delle stanze di LLys Wen ma una parte di me era altrove, poteva essere Roma, una città sconosciuta, l’interno di un palazzo e delle sue misteriose camere, una stazione ferroviaria o un aeroporto, un luogo che cambiava forma e sostanza e i cui passaggi erano imprevedibili. C’erano incontri con persone che avevano attraversato la mia vita, alcune di esse erano ancora molto giovani soprattutto quelle che avevo conosciuto durante la mia adolescenza e mai più rivisto. Mi accorgevo, sogno dopo sogno, che questo era un modo per risanare le ferite che ci eravamo inflitti, un modo concreto per dirigermi nel centro stesso di conflitti irrisolti e curare le emozioni negative che essi avevano generato. Ogni volta che riemergevo nel mio letto portavo qualcosa nel mio cuore di quegli incontri e nello stato di transizione in cui mi trovavo iniziavo solamente a respirare senza appigli logici, mentali o psicologici, ampliavo i respiri in serie continue di onde interiori piene di calma e quiete. Alcuni incontri erano molto piacevoli, in altre occasioni c’erano delle esperienze sessuali, portavo tutto con me e lo assimilavo in uno spazio personale protetto e avvolgente. 
I momenti di passaggio erano i più preziosi, non quelli tra un sogno e un altro, che stavo ancora cercando di imparare a usare, ma quelli tra lo stato onirico e la veglia, era una dissolvenza incrociata fra due mondi, fra le immagini del primo e quello in cui si trovava il mio corpo, tra le emozioni provate e la calma profonda di uno stato di coscienza senza attriti o preoccupazioni.
E il giorno sapevo di essere ancora qui, nella magia di questa terra, delle sue colline, dei colori, della luce, degli elementi in continua mutazione. Avevo infine trovato un luogo che fosse uguale a quello che avevo dentro. Lo stesso respiro, lo stesso vivere.
Discendere dentro di me, specialmente attraverso la meditazione, significava arrivare nel centro silenzioso dell’esistenza, non la mia in senso personale, ma quella che era presente ovunque e di cui ognuno di noi faceva parte. Entrare in quel luogo può sembrare un’esperienza solitaria e lo è nel suo apparente isolamento ma è anche la scoperta che non siamo soli perché quel luogo appartiene a tutti. 

Ogni giorno è veramente una morte e una rinascita, in un ciclico movimento di noi stessi e di tutto quello che ci circonda, fino all’ultimo passaggio, quello per cui siamo nati e che molti di noi temono e guardano con paura, quel momento per cui hai usato tutto il tempo che avevi a disposizione, ci sarà luce, intorno e dentro di te, ci sarà un respiro e il suo riflesso e ogni attimo che hai vissuto su questa terra si rispecchierà nel vuoto infinito dei tuoi occhi ormai muti.

lunedì 24 dicembre 2018

Aberystwyth #9

Pioveva. E novembre stava per finire. E c’erano libri ovunque nella casa dove abitavo, insieme ai fantasmi di giovani tossici, le carte da parati che qualche sostanza psichedelica avrebbe reso vive come nella danza dei mille scarafaggi volanti, il gruppo di meditazione buddhista in cui rimanevo in silenzio a respirare e poi al suono d’argento della piccola campana aprivo gli occhi e ascoltavo gli altri con muto stupore, non avevo molto da dire, forse non ne avevo mai avuto, la sauna in cui i corpi si incontravano ed espellevano fluidi e tossine, le ragazze ubriache che camminavano lungo le strade il sabato sera, passavo i pomeriggi disteso sul letto, a leggere o semplicemente a immergermi nel mondo interiore, diventavo settimana dopo settimana sempre più bravo, la piccola stanza come quella della mia adolescenza, sembrava che la vita mi stesse riproponendo gli stessi scenari, le stesse ambientazioni, ma non avevo fretta o paura, c’era solo una pacata resa, una delicata  contemplazione, mi limitavo ad accettare le cose che mi capitavano ogni giorno, mi lasciavo attraversare da esse, come se fossero aria e mi rendevo conto che in questo modo ogni problema si dissolveva, non c’erano più incazzature, aspettative, delusioni, attimi di sofferenza, incomprensioni, la vita si modellava in forme che non possedevo e che non mi toccavano eppure in questo lieve distacco c’era sempre la sensazione di trovarmi nel centro stesso della mia esistenza, di essere reale e concreto, di capire quello che ero senza fraintendimenti, la ricerca interiore proseguiva da sola, mi trascinava con sé, mi faceva chiudere gli occhi e osservare me stesso, le mie emozioni, come erano nate, i perché dei miei errori, la confusione di quasi quaranta anni di risvegli su questa terra si stava diradando, mi sembrava la maniera migliore di occupare il mio tempo, cercare di sentire finalmente la mia essenza, non era un tipo di comprensione intellettuale o psicologica era una consapevolezza più ampia e vasta che sapevo bene non appartenermi anche se era dentro di me, passare attraverso di essa significava ritrovarsi all’esterno e capire di fare parte di qualcosa di identico ma infinito, presente in ogni respiro, come le onde nel mare, un attimo dopo l’altro e avevo i sogni e quello che ogni notte mi mostravano, la possibilità  di confrontarmi di nuovo con tutto ciò che mi aveva ferito, mi concentravo su quelle sensazioni sgradevoli e le curavo respirando fino a quando il cuore fosse calmo e pieno di pace e in questo modo comprendevo che ogni reazione sbagliata non era stata altro che un malinteso dei miei sentimenti soltanto perché li avevo creduti reali nel momento stesso in cui mi attaccavo ad essi senza lasciarli andare, non c’era mai stato nulla che avesse avuto veramente importanza perché ogni stato d’animo non era altro che un illusorio aggrapparsi al proprio ego, al quale poi si finiva per dare il nostro volto e la nostra vita, un biglietto da visita da mostrare in una società piena di stronzi, alla quale molti di noi decidevano di credere e fare parte.
Osservavo le mie mani in un’alba di grazia nascosta fra i grigi veli del cielo d’inverno e mi sembravano molto vecchie ma c’era anche una primavera costante che sentivo vibrare proprio nel centro del petto, c’erano i suoi colori che potevo toccare sfiorando la mia pelle, abbiamo invocato l’amore come fosse una divinità impossibile da trovare, guarda i giorni che ti hanno solcato il volto, la morte che   misteriosa ti attende, guarda te stesso sprofondare negli anni, tra i fiori che  hai visto sbocciare e appassire, fra tutti gli occhi che ti hanno sorriso per poi infine svanire.

sabato 22 dicembre 2018

Aberystwyth #8

La stanza aveva un odore stantio di sigarette, i posaceneri erano vuoti, testimoni assenti di notti insonni, i pacchetti ancora da scartare in fila su mobili di epoche passate, pareti rosa pallido con decorazioni settecentesche, le confezioni delle medicine e una bottiglia di vodka piena a metà, la porta misteriosa, al piano superiore, che nessuno aveva il coraggio di aprire, un uomo affacciato ad una finestra, l’inconsueto tempo trascorso fra una risposta e un’apparizione fisica in uno spiraglio di luce, la legna era disposta in scatoloni di cartone, nella parte posteriore della casa, i ciocchi erano tasselli di un puzzle mnemonico che le droghe cercavano sempre di scombinare, un matrimonio fallito, una carriera universitaria conclusasi fra formule chimiche alterate e leggi fisiche a cui nessuno era più interessato, stazioni radio crepitanti nella notte, studi televisivi invasi da incubi di rumore bianco, frequenze manomesse da sabotatori filmici, la poltrona sulla quale l’uomo rimaneva seduto a guardare uno schermo che pulsava di interferenze grigie e nere, piombo nei polmoni, metastasi elettroniche come ragni meccanici nel cervello, le storie scritte da dita tremanti, le fotografie di paesaggi astratti, le emulsioni in vasche di desideri sconosciuti, gli studenti  enteogeni stavano tornando ad invadere le aule di università abbandonate nella pioggia, risate rauche echeggiavano nei corridoi, lezioni di decadenza morale e sinestesia politica, siamo ingabbiati in un sogno contenuto in un sogno contenuto in un sogno, dove è la forma? Dove sono i dragoni e le farfalle? Urlava Sam mentre una infermiera lo inseguiva con una siringa d’argento in mano, nuvole azzurre lasciate ad asciugare su un orizzonte di cemento arancione, i giorni che sembravano smarrirsi nelle ipnosi sonore di temporali invisibili, le matite spezzate nelle albe di aule di scrittura creativa, sedie vuote dai contorni sfuocati, indagini esistenziali, le ragazze aspettano un invito per alzarsi e mostrarti le loro mutandine, saranno ancora gli inganni di questo mondo a lasciarci sospesi sui limiti di città senza più nome, ad ognuno la propria serie infinita di lettere spedite e ricevute, tutte le parole che finiremo insonni per dimenticare, tutte le pagine strappate e bruciate, ogni granello di polvere che vedremo danzare nel vuoto non sarà altro che l’inizio e la fine di un’ennesima poesia incompiuta.

mercoledì 19 dicembre 2018

Aberystwyth #7

Nuovi incontri transpsichici con i chakra colorati del Dottor Ballard, Liz produceva suoni circolari con le sue campane tibetane e mi proiettava in stanze astrali in cui potevo discutere con l’aurea lucente del mio psicoanalista letterario, nuovi studi fra analisi freudiane e pratiche meditative buddhiste erano stati portati avanti nelle aule sotterranee dell’Università Balinese, proprio accanto ai laboratori chimici per la sperimentazione e sintetizzazione di psicoerotiche sostanze allucinogene, bene, appuntava la dottoressa con le calze velate, accavallando le gambe, il paziente sente alla base dei coglioni la nascita di una erezione, controlliamone gli stimoli e colleghiamoli ad immagini feticistiche, qualcuno porti una camicia di forza, in caso dovesse perdere il controllo, il Dottor Ballard era dietro il vetro protettivo, in una stanzetta bianca e insonorizzata e scriveva sul suo quaderno nero, appunti, libere associazioni, sogni, ricordi, il fallimento della cura Ludovico era stato palese, saremmo tornati indietro ai momenti traumatici e avremmo sostituto quelle esperienze e la loro deflagrazione emotiva con altri impulsi sinestetici, certo, c’era il rischio che il paziente impazzisse definitivamente, senza più la minima idea di cosa fosse reale o accettabile come tale, abbiamo file di cavie umane, schiavi sessuali in stato di deprivazione orgasmica, troveremo un rimedio, perdio, diceva ad alta voce uno scimpanzé in camice bianco, sbattendo il suo pugno peloso sulla scrivania di legno plastificato, poi silenzio, un sigaro veniva acceso e le telecamere di sorveglianza si muovevano negli angoli delle celle di isolamento, un uomo completamente nudo incatenato ad una parete, l’infermiera che gli si struscia addosso, il cazzo dell’uomo violaceo e pulsante, la punta enorme e gonfia, un filo di una sostanza bianca che gocciola sul pavimento, contrazioni ritmiche di vagine meccaniche, iniziare l’esperimento numero 23, l’infermiera posiziona il cazzo dell’uomo nell’apparecchiatura elettrosessuale, vediamo i tempi di reazione, l’infermiera guarda il suo orologio e spinge un bottone, ronzii, vibrazioni, sonorità indiane fluttuanti nelle gabbie mentali, giorni e notti di abominio, sbarre su finestre invisibili, cliniche e incarcerazioni comportamentali, studi su disordini e ossessioni compulsive, gli specchi senza riflessi, le sedie a cui ognuno di noi veniva prima o poi legato, interrogatori, silenzi, erezioni e anelli metallici, confessioni di bianca coscienza, estasi, trascendenze, morti e rinascite in corpi di vuoto e sudore.

sabato 15 dicembre 2018

Manchester #6

Non che il mondo, le cose e le persone fossero cambiati dopo questi mesi di assenza, isolamento, esilio, riparo, fuga, la lontananza da una vita normale mi aveva mostrato più chiaramente quanto sapevo già, non avevo mai avuto bisogno della gran parte delle merdate che mi circondavano, ma ci ero cresciuto nel mezzo, le avevo da sempre avute intorno e  per questo, alla fine, le avevo credute reali. Non pensavo fosse possibile vivere al di fuori di quel perimetro di costrizione sociale e mentale in cui ci avevano addestrati fin da bambini e invece una scelta la potevamo ancora fare e dopo guardare tutto con occhi nuovi e più attenti. Lo schifo c’è ancora, è inevitabile, lo vedo materializzarsi anche adesso, fuori dalle vetrate dell’acquario virtuale in cui sono seduto a scrivere, nello spazio di anonimato metropolitano di una stazione ferroviaria, posso osservare le persone che camminano e passano nel vuoto architettonico, traiettorie orizzontali di esistenze ignote, questi corpi mi scivolano davanti senza che possano toccarmi, i loro vestiti, le mode, gli stili, tutto superfluo, tutto illusorio e ancora i miserabili, come quelli che mi sono lasciato dietro nel mio passato di ingannevoli privilegi, seduti ai lati della strada, gli occhi che cercano intorno, che cosa? Che qualcuno li riconosca, che qualcuno si fermi e parli con loro e li faccia sentire ancora esseri umani, ma tutti tirano dritto, corrono, si affrettano, parlano all’aria, fissano uno schermo, un uomo e una donna discutono di lavoro e guadagni e famiglia, seduti accanto a me, di quello che succederà domani, fra un mese, tra un anno, previsioni, colloqui, scambi, spiegazioni, frasi sputate fuori così velocemente che corrono il rischio di perdere il proprio significato, ma loro sembrano capirsi, mentre li ascolto e continuo a scrivere, lentamente, perché non c’è più traccia d’inquietudine nel mio cuore per quello che dovrà succedere, non voglio oppormi, creare attriti, ogni conflitto è stato perso e con esso sono tramontate le costanti e illusorie interpretazioni del caos, i volti e le maschere del destino e le sue bizzarre sceneggiature, dialoghi sempre più minimalisti, un sorriso, un accenno, il movimento involontario di un sopracciglio, quale sarebbe stato il prossimo passo? La Caduta, era il titolo di un soggetto che il produttore aveva ancora intenzione di realizzare, Giorni Rubati, la proposta sovversiva di un promettente sceneggiatore, qualcuno attendeva risposte nei respiri che momento dopo momento si regalava, sarebbe diventato più difficile dopo? Chiedeva un giovane fotografo al proprio riflesso sconvolto, il trucco che colava dalla sua faccia  e le sostanze in strisce oblique sul tavolino di vetro, posa la bottiglia suggeriva la mano allo scrittore, poi calci in culo agli stereotipi e maschere mandate in frantumi sui palcoscenici dell’avvenire. 
Ci sarà un punto su questa linea oltre il quale non potremo più andare. Ti aspetterò lì. Perché possa ancora guardati negli occhi. E baciarti. E dirti addio con le mie labbra.

giovedì 13 dicembre 2018

dream #82

Cammino per una strada senza persone, sopra una macchina trovo una giacca a quadri, rossi e neri, mi guardo intorno e la prendo, poi me la infilo e continuo a camminare, mi accorgo di essere arrivato vicino al mio vecchio ufficio, cambio direzione e attraverso vie secondarie, poi mi ritrovo in un cortile, entro in una porta e scendo delle scale, è buio e ho una spiacevole sensazione, alla fine delle scale c’è un bagno e un altro paio di stanze oscure e umide, forse usano questi luoghi per la coltivazione clandestina di funghi allucinogeni, cerco di tornare nel cortile, sono pervaso da strani pensieri di smarrimento, poi sono fuori, da qualche altra parte, continuo a camminare, arrivo davanti alla porta di Sofia, lei apre e mi fa entrare, c’è un letto sulla parete destra e sembra che adesso lei viva lì, ci sediamo a un tavolo, mi sento attratto da lei, la bacio, la accarezzo, lei tira fuori dei soldi e li posa sul tavolo, ci guardiamo, poi entra un uomo cinese, si siede accanto a noi e comincia a succhiarmi le dita della mano, poi si alza e se ne va, Sofia mi dice che deve uscire, deve andare da un suo cliente, mi dice che anche io devo andare via e che posso tornare da lei fra un paio d’ore, ci abbracciamo, in piedi, le metto una mano fra le cosce, ha delle calze e sono bagnate, poi esco e cerco di dirigermi verso la casa dove abitavo a San Lorenzo, è ancora Roma, nel suo doppio onirico, mi fermo in un vicolo, indosso ancora la giacca a quadri, in una delle tasche trovo un portafogli, ci sono dei biglietti di carta dentro ma nessuna banconota, nella parte per le monete trovo delle piccole palline nere, le annuso, è hashish, chiudo il portafogli e lo metto nella tasca dei pantaloni, mi tolgo la giacca e la lascio su una macchina, mi guardo intorno e non c’è nessuno, cammino ancora, non so più dove sono, ancora palazzi, poi qualcuno che mi chiama e mi pone una domanda, non rispondo, ci avviamo insieme verso una scuola, camminando vicini in un silenzio fatto di edifici e strade sconosciute.

martedì 11 dicembre 2018

Aberystwyth #6

I sentieri del campus erano vuoti, gli studenti si erano nascosti fra gli alberi aspettando il momento giusto per sparire in un improvviso bagliore senza tempo, gli edifici di mattoni disegnavano uno schema di lezioni sbagliate, nelle aule i professori avevano adottato sistemi di insegnamento sperimentali, con scioperi e opposizioni e metodologie della masturbazione guidata, l’aula dei tacchi a spillo, quella delle calze velate, valutazioni feticistiche in trimestri ed atti unici osceni e abbandonati sui palchi del Teatro d’Argento, le giovani ballerine camminavano in punta di piedi, timide e silenziose e nella camera oscura si sniffavano polveri e nitrati su lastre al magnesio, poi folgorazioni elettriche in stampe da appendere in stanze ottogonali, ognuno di voi avrà il suo lato di futuro, ridacchiava uno degli insegnanti mentre si stringeva un laccio di cuoio intorno ai coglioni rasati. 
Lo schermo sembrava essersi svuotato anche se i tecnici del suono continuavano a manipolare i diversi rumori: vento, traffico in lontananza, gabbiani, musica jazz, sperimentalismi classici e avanguardie di suicidi dodecafonici, i libri dalle copertine plasmabili, le impronte di dita di gomma e celluloide, nel dipartimento di cinema e teatro si potevano passare intere giornate, solamente chiudendo gli occhi e lasciando che le sostanze psichedeliche facessero effetto, la nuova onda è qui e ora aveva scritto qualcuno sulle mattonelle di un cesso accademico, una studentessa osservava le lettere danzare leggermente mentre con una mano si accarezzava la fica e un uomo con gli occhiali dalle lenti trapezioidali la riprendeva  con il suo apparecchio di registrazione automatica, scrittura della psiche, ragnatele lessicali, picchi di strutture molecolari sul punto di infrangersi oltre le barriere del sonno, gli aerei da caccia che volavano bassi, in simulazioni di guerre atomiche non ancora scoppiate, le confezioni di codeina in un cassetto, le ricette mediche che una mano dalle unghie affilate mi passava sotto una porta onirica, passeggiate lente e senza meta, passi di danze soporifere in circoli di astinenza, lo scrittore si esercitava in stili di vita da marciapiede, costruiva  un personaggio immedesimandosi nella sua esistenza, prove diurne e rituali notturni, oggetti trasformati in feticci sotto l’occhio imperscrutabile della divinità lunare, ti troverò ovunque, diceva la faccia bianca, per poi abbandonarsi a orgie di latex e orgasmi cosmici,  la legna crepitava nella stufa e il tappeto aveva ancora figure geometriche in movimento, l’album delle fotografie da sfogliare, gli studi per il montaggio delle attrazioni ricoperti da materiali morbidi e scintillanti, le sequenze che avremmo inventato notte dopo notte, perché ogni risveglio fosse diverso da quello precedente, l’arte del tuo vivere, l’incandescente vibrare del tuo sangue nelle vene del mondo.


lunedì 10 dicembre 2018

Copenhagen #2

Correnti e movimenti metropolitani di corpi, canalizzazioni psichiche verso nessun luogo, ventiquattromila ipotesi di personalità  smarrite, volti che si sovrapponevano creando identikit senza logica, passato o prospettive future, ogni vita si immobilizzava in un frame di  possibilità perpendicolari e così camminavamo verso i miraggi architettonici del Black Diamond, la biblioteca di blocchi trasparenti dissolti nello spazio urbano, le linee delle luci che nuotavano nell’aria creavano scie di visioni geometriche, i passi si facevano ritmici, pusher street e Christiania, gli stili di vita alternativi degli anni settanta stampati su magliette e adesivi, il Mercato divorava ogni cosa, il Capitale era in grado di omologare qualsiasi tentativo di ribellione, le proteste non erano diventate altro che enormi scherzi commerciali, scioperi invisibili di classi sociali scomparse, avanguardie artistiche naufragate in bottiglie di vodka annacquate, il muffin aveva un forte sapore di hashish e lo masticavo lentamente, poi io e Maria ci siamo diretti  verso il Nyhavn e i suoi colori pastello di facciate fiabesche, mi sentivo leggero e di buon umore e il lieve effetto dell’hashish che stavo sentendo e che credevo mi avrebbe trasportato in una morbida serata di incanto ha iniziato a intensificarsi sempre di più e quando mi sono reso conto della botta che mi stava salendo è stato troppo tardi e così il sogno psichedelico è tornato a trovarmi insieme alle stroboscopiche intermittenze lampeggianti delle giostre del Tivoli, dove siamo arrivati senza che neanche me ne accorgessi, perso e pesante nelle mie scarpe di cartapesta, poi i fuochi d’artificio hanno cominciato a esplodere nel cielo come ragni danzanti, le traiettorie colorate dei laser sezionavano nuvole di fumo sintetico, eravamo immersi in un delirio ludico allo stato puro, era tutto intorno a me, in ogni singola percezione, sogghignavo come un demente, continuando a smarrirmi, aggrappandomi ai discorsi di Maria che cercava di farmi riprendere, purtroppo senza nessun risultato, ci siamo spostati e seduti e poi spostati e seduti di nuovo e c’erano enormi pale che ruotavano in maniera circolare con aerei artificiali attaccati alle estremità, navi volanti, montagne russe sintetiche, tazze che vorticavano in coreografie lisergiche, paesaggi orbitali, atterraggi e partenze in notturne circonferenze nordiche, spinte ondulatorie in sequenze carnevalesche, pantomime in costume di attori di legno, carne e metallo, manopole dell’alta velocità, leggi fisiche abolite nelle eco di ghigni e urla e strilli di divertimento terrorizzante, case degli specchi, la luce del mattino che accarezza piano le tende e le superfici bianche della stanza in cui mi sveglio, Maria ancora addormentata al mio fianco, la guardo nella grazia di questo momento, con una enorme tenerezza nel cuore, senza più pensieri e promesse, mentre il tempo che da sempre ci accompagna scivola piano lontano da noi.

domenica 9 dicembre 2018

...

“In his forty-third year William Stoner learned what others, much younger, had learned before him: that the person one loves at first is not the person one loves at last, and that love is not an end but a process through which one person attempts to know another.
They were both very shy, and they knew each other slowly, tentatively; they came close and drew apart, they touched and withdrew, neither wishing to impose upon the other more than might be welcomed. Day by day the layers of reserve that protected them dropped away, so that at last they were like many who are extraordinarily shy, each open to the other, unprotected, perfectly and unselfconsciously at ease.
Nearly every afternoon, when his classes were over, he came to her apartment. They made love, and talked, and made love again, like children who did not think of tiring at their play. The spring days lengthened, and they looked forward to the summer.” 


john williams
stoner

sabato 8 dicembre 2018

dream #81

Barbara mi abbraccia in una stanza in penombra, sento le sue labbra sul mio orecchio, ti stiamo pensando, mi sussurra, poi altre parole che mi scivolano dentro e diventano sensazioni fisiche come quelle delle linee del suo corpo. Un treno in partenza per una città spagnola, i biglietti che non riesco a trovare, tutta la roba che mi sono portato dietro poggiata in un angolo, non ne ho bisogno, non ne ho mai avuto, prendo solo lo zaino e mi incammino dentro la stazione, seguendo binari che non finiranno mai. 

mercoledì 5 dicembre 2018

Artist Valley #14

147 ore di luce, con accenni di buio e stelle scintillanti nel cielo porpora e damasco, l’attesa della pioggia e le danze primitive intorno al cerchio della mezza luna, Fiona era tornata dalla Spagna dopo giorni di digiuno e astinenza, rinchiusa in un perimetro invisibile delimitato da quattro feticci africani, le preghiere che il suo ego sibilava in conflitti interiori mai risolti, i teatri dell’infanzia che lunatici personaggi ancora interpretavano nei suoi sogni di abbandono, non c’era più traccia di razionalità nei suoi discorsi, ormai sprofondati in dirupi di follia messianica, la vedevo camminare intorno, sui prati, nelle stanze, benedicendo ogni cosa che si trovava davanti, portandosi appresso una brocca piena d’acqua,  santificata attraverso qualche misterioso rituale, Fiona si era perduta in una sorta di mistica deriva dei propri pensieri, combinando estasi indotte dal peyote a redenzioni cristologiche in costume, viveva ancora nella sua macchina e si spostava da un posto all’altro, principalmente Glastonbury e Wales, con la sua chitarra e le psicosi di una vita sempre sul punto di crollare e svanire ed era arrivata con una ragazza rumena, che aveva dormito sul pavimento del nostro cottage e poi la mattina aveva iniziato a parlare senza più fermarsi, snocciolando allucinazioni matematiche boschive, formule alchemiche e teoremi di geometrie polidimensionali, non ci avevo capito un cazzo di quello che stava dicendo, poi mi guardava e i suoi occhi erano ferini, atavici, mi aveva quasi spaventato con quello sguardo, c’era una presenza sessuale malata in quelle iridi, mi era venuto mezzo duro ma poi ho lasciato stare, mi sono alzato e sono uscito fuori, Fiona stava parlando in spagnolo con due bambini che non capivano assolutamente quella lingua e lei si era lanciata in un lungo ed estenuante monologo che nessuno sembrava ascoltare, poi se ne andava nel ruscello inscenando un delirio battesimale che le rocce applaudivano, mentre l’acqua creava forme di lucida astrazione e io mettevo altra legna nel fuoco, aspettando che qualcuno prendesse in mano la situazione ma la logica era ormai fuggita fra gli alberi e le colline, scomparendo oltre le ultime difese del pensiero e della sera e allora ho chiesto a Josh di passarmi la pipetta di pietra nella quale stava fumando erba, ho fatto un paio di tiri e sono rimasto in silenzio, qualcuno mi ha passato un bicchiere di birra, Mark è arrivato con la bottiglia di whisky che avevamo comprato in qualche cittadina di mare e la confusione mi accolto con la sua danza di grazia e oscenità e ho continuato a guardare le fiamme, le immagini della cerimonia della notte precedente che tornavano a mostrarsi, l’alba nata fra le parole di una donna con fili d’argento nei capelli, tutti i suoi movimenti che sembravano essere stati studiati e ripetuti fino allo sfinimento per quanto erano precisi e perfetti nella loro femminile fluidità e poi di nuovo fra le strade di una città onirica, ancora smarrito in un labirinto di volti e strade, lo scrittore viveva in una stanza al terzo piano di un albergo fatiscente, le insegne rossastre dei cinema porno, le puttane che passeggiavano lente sui marciapiedi, tutti i discorsi che non abbiamo più fatto, tutti i saluti, tutti gli abbracci che non ci siamo più dati, riemergevano i ricordi sulle superfici piatte di lenzuola di perla e sudore, le linee di bianca energia che pulsano sotto le palpebre, i canti che Michael intonava nel cuore di ognuno di noi, ci siamo guardati negli occhi in una mattina che il tempo aveva dimenticato, due universi che si incontravano in un attimo di puro splendore.

venerdì 30 novembre 2018

freewheelin' #43

Imprigionato in un’ossessione, nell’inquadratura di uno sguardo immutabile, nel regno dei fantasmi affamati, nei luoghi in cui i desideri diventano proiezioni mentali e le fantasie erotiche accavallano le gambe, si sfilano gli stivali di pelle nera e ti mostrano i loro piedi nudi, perfettamente disegnati da divinità sadiche e intoccabili. I lati della stanza esagonale rappresentano i diversi limiti delle tue perversioni, oscure fantasie, ombre che sussurrano nella notte, travestimenti alchemici, formule e cabale e sacerdotesse in costumi piumati, anelli e catene, strumenti punitivi, corde, pesi, candele che gocciolano piacere su pavimenti di legno e sudore, i ritmi ipnotici dei colpi, una nuova dimensione che dischiude i propri confini, si sfaldano le frontiere percettive e non si sono più divisioni, scivoli fuori dai mondi ordinari per perderti in quelli del subconscio, le fiamme sono danzatrici nude dai contorni infuocati, gli schiocchi della frusta e i lividi viola, le lingue si insinuano in cavità bagnate e umide, pulsazioni purpuree, dilatazioni, contrazioni marine, odori floreali come presagi di orgasmi e morti istantanee, libri segreti, sotterranei pornografici, corriamo inseguiti dalle nostre paure, lo specchio e il suo doppio, conversazioni mentali,  un’immagine proibita e quella successiva, ripetizioni, frammentazioni, giovani divinità dalle caviglie dorate, ogni zona di frontiera che attraversiamo, ogni risveglio che solo i sogni  possono rendere reale.

martedì 27 novembre 2018

Love after love




The time will come 
when, with elation
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror
and each will smile at the other's welcome,

and say, sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you

all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.
Take down the love letters from the bookshelf,

the photographs, the desperate notes,
peel your own image from the mirror.
Sit. Feast on your life.

derek walcott

sabato 24 novembre 2018

freewheelin' #42

Infiniti movimenti elicoidali per trasformare i flussi delle maree in energia elettrica, progetti sussurrati in prismi di luce perché le interpretazioni possano diventare codici del futuro, assassini su tappeti di note fiorite, enormi carghi solcavano le onde dell’oceano per trasportare barili di olio e miele, pece e oppio, le foreste che si estendevano lungo i confini onirici fra Zambia e Mozambico, gli studi di biologia marina e gli squali dalle fauci taglienti come arcobaleni carnivori, scie di sangue, sottofondi musicali da osservare attraverso vetri appannati, ambigue composizioni epidermiche, tavoli di legno che ruotavano in direzioni antigravitazionali, sciogliete le briglie, gridavano impazziti gli attori sul palcoscenico desolato della loro follia, non abbiamo più bisogno di architetti e ingegneri, le prossime rivoluzioni industriali le faremo a cazzo dritto, rispondevano uomini mascherati dietro un sipario ancora da strappare, poi gli inni di gloria che i soldati cantavano nelle estenuanti marce notturne, le finestre che nessuno aveva più aperto, i romanzi in fiamme, scatole craniche e fucilazioni iperboliche, i funambolismi lessicali e visivi delle avanguardie storiche appesi ad asciugare su fili di ragnatele scismatiche, le troie dai tacchi a spillo che applaudivano parate falliche di subdoli simboli del subconscio, il rumore del vento sulle spiagge desolate, i giorni, i mesi e gli anni che sono stato lontano da te, cercavo ancora di raggiungerti, in un modo o nell’altro, cercavo ancora di abbracciarti fra una sconfitta e un suicidio di emozioni sintetiche, scivola lento questo tramonto di seta, sulla la tua pelle che vibra in frantumi di nudo splendore.

giovedì 15 novembre 2018

freewheelin' #41

Stazioni ferroviarie immobili nella luce del giorno e dell’estate, una voce sconosciuta che galleggia nell’aria, i momenti trascorsi nelle spiagge solitarie della mente, le isole di idee e percezioni interiori come scintille di diamanti di pura meraviglia su fili d’erba in movimento, ogni prato una creazione di eterno e instabile splendore, una testimonianza a colori di una divinità perduta. Si manifestavano ancora, durante la notte, i sogni di sabbia e cemento, architetture    di pensieri sul punto di crollare nell’incastro di frasi senza struttura logica, l’attesa su panchine dipinte di nero, i nomi incisi, i simboli, le svastiche, le rune, i fuochi di significati che solo il buio avrebbe svelato, le rotaie di acciaio, linee parallele su traversine di legno bruciato, treno dopo treno, paesaggi lunari in dissolvenze incrociate, occhi chiusi e macchie di colore pulsante, vecchie canzoni come graffi sonori su vinili impolverati, nuove stanze ti avrebbero accolto, rumori metallici come urla di catastrofi siderurgiche, testimonianze scritte nell’ignoto susseguirsi delle ore e poi liberarsi da tutto, dai saluti, dagli addii, dagli abbracci e dalle dichiarazioni d’amore, il passato tornava sotto forma di sequenze oniriche, il calore delle mani, quello nelle vene, eravamo all’interno di un sogno senza più risvegli, le urla davanti a una casa nera, i giorni che hai attraversato contando gli intervalli di tempo tra una dose e l’altra, fra una fuga e quella successiva, i ripari, i templi di quiete elettronica, modulazioni ondulate, pulsazioni sferiche, contrazioni ritmiche come meduse impazzite, gli acquari pieni di volti senza respiro, i ponti immaginari su città di ombre e pioggia e neon sintetici, i ragazzi manipolavano la loro giovinezza nell’attesa che le droghe facessero effetto, lo senti ancora l’odore della sua pelle? Il contatto del suo corpo? Metti alla prova te stesso in ogni deriva possibile, in ogni finzione esistenziale, quanto rimane di ciò che avevi sempre creduto reale? Ogni luogo scompare nel momento stesso in cui decidi di partire, l’andare avanti disegnerà altre simulazioni di evasione, ricordati di guardarti intorno solo per dimenticartene al prossimo sbattere di ciglia, un elastico abbandonato per terra, la sborra nei coglioni, le sbarre verdi, le prigioni che le abitudini sotterrano perché l’inconscio non possa scappare, sprofondiamo in un abisso di amniotica bellezza, inspira, espira, capovolgi il mondo perché tutto torni ad esserne origine e fine.

sabato 10 novembre 2018

Artist Valley #13

Abbiamo un problema con i rumori di fondo, disse Richie, il continuo lappare di Jasper the dog ricorda troppo il suono di una fica che viene leccata e crea vibrazioni dissonanti nella mente dello scrittore, possiamo risolvere il tutto nella colonna sonora, disse Mark, usando qualcosa della fine degli anni sessanta, tipo rock psichedelico, ho un’idea migliore, aggiunse Toby, perché non mixare la musica e il cane e inserire immagini pornografiche che suggeriscano nuovi significati? Vedremo, disse a bassa voce il produttore, dando una lunga tirata al suo enorme sigaro.
Erano svaniti i sogni e le case e i momenti dell’infanzia e del sole e del calore nel corpo, le voci della sera, le rondini veloci nel cielo, i visi familiari, le reti di protezione con cui qualcuno ti aveva avvolto con la paura che questo mondo fosse troppo diverso da te, ti sarebbe servito molto coraggio durante gli anni dei cambiamenti e ogni cosa sarebbe poi scomparsa per riaffiorare in immagini mentali, in quel vasto oceano che è la memoria, maree di ricordi, volti che prendevano forme ormai dimenticate, scenari metafisici, vuoti e spazi narrativi che lo scrittore avrebbe riempito nelle sue notti insonni, seduto in una piccola stanza, a raccogliere parole da angoli e fessure, interi libri mai scritti, intere biblioteche disposte in infinite linee di fluida immaginazione.
Camminavo con Mark lungo i sentieri di esperimenti ambientali e scientifici, utopie naturalistiche e comunità lisergiche estinte, chi erano stati i fondatori? Dove erano finiti? C’era una foto attaccata ad una delle pareti di legno di una piccola casa, scattata ancora prima che la sua realtà fosse cambiata e ricostruita, c’erano progetti che appartenevano all’ordine dell’illusione e qualcuno che si sforzava costantemente di unire atomi in strutture molecolari che divenissero visibili e perciò concrete, Mark mi raccontava alcuni fatti mentre la voce di Garry aleggiava nell’aria, uscendo fuori da qualche altoparlante sistemato fra gli alberi, abbiamo sperimentato il cinema nascosto, diceva Mark, le persone volevano un’esperienza che fosse totalmente immersiva, non gli bastava più guardare,  volevano sentire, essere parte, oltrepassare lo schermo e diventare luce in movimento, poi siamo passati al cinema proibito e qualcosa è andato storto e non siamo stati più in grado di controllare quello che avevamo intenzione di fare, alla fine ho deciso di mollare tutto e me ne sono andato a vivere fra i boschi e non ci sono stati più fotogrammi a cercarmi, produttori psilocibinici sempre sul punto di cambiare colore, le giornate sono lente adesso e io non ho più fretta di andare in nessun luogo. 
Siamo tornati nella stanza centrale di un basso edificio, abbiamo preso da bere e ci siamo seduti ad un tavolo, continuando a parlare. Oltre le vetrate alla nostra sinistra c’era una specie di giardino zen minimalista, con le pietre e l’acqua e l’idea che nulla fosse destinato a durare.

Penso che dovremmo tentare, dissi a Mark, un ultimo spettacolo, prima che le fondamenta di questo mondo inizino a tremare.

lunedì 5 novembre 2018

freewheelin' #40

Travestimenti psichici per affrontare le fredde vie delle metropoli del futuro, vuoti e silenzi, le pagine di un diario, i segreti nascosti nel fondo oscuro della nostra anima, ci avrebbero pensato gli alcolici a perforare barriere e false reti di protezioni, ci si dimenticava di se stessi, del dolore, dei propri fallimenti, ci si abbracciava in stati di ebbrezza progressiva, la musica e le danze estatiche, i vuoti di memoria, le pisciate inconsce su pavimenti di privazioni, il doppio dello scrittore si aggirava in costume in una Venezia ottocentesca, abile sarto in cerca di una nuova occupazione, i tessuti pregiati e i vestiti dai mille colori, pronti per essere confezionati e venduti, creazioni su misura di eccentriche personalità misteriose, qualcuno lo stava accompagnando alla sua nuova sistemazione, attraverso palazzi dalle forme arabe e bizantine, il desiderio di ricominciare tutto da capo, in altre vite e altri corpi, la necessità di fuggire, le bugie come passaporti per terre lontane ed esotiche, c’erano i libri e i romanzi per riscrivere ogni possibilità che non avevamo mai avuto, le donne in divisa con le manette e i guanti di pelle nere, le fantasie proibite, le ipotesi e le speculazioni per chi non era più qui, le strade fluide che si scioglievano in riflessi d’acqua, i pensieri come cumuli di immondizia da buttare via in qualche discarica emotiva, gli psicologi della quinta dimensione spalavano tonnellate di psicomerda da cumuli di esistenze marce e in avanzato stato di psicoputrefazione, ne avevo le palle piene dei problemi altrui, a fare finta di ascoltare ci si imbastardiva dentro, li alleggerivo ancora i cuori delle persone, le sfioravo ancora le loro anime ferite, ma c’era un mondo di quiete di cui solo io avevo il libero accesso, mi ci rifugiavo in momenti di magnifica solitudine, quando tutto splendeva, un’unca luce e un solo respiro.

sabato 3 novembre 2018

Artist Valley #12

Toby stava parlando al telefono con qualche produttore e intanto si aggirava nello spazio filmico della sua mente, passando da un’inquadratura all’altra come fosse un linguaggio di immagini proibite, la sua voce si attardava in significati lessicali che il tempo avrebbe poi tradotto in sequenze di un progetto audiovisivo di cui la natura sarebbe stata la protagonista assoluta. Era il flusso stesso della vita che andava catturato, il suo manifestarsi in particolari di luce e ombra. Le scintille improvvise sulla superficie ondulata dell’acqua. Toby era davanti al computer e assemblava fotografie in grotteschi scenari post industriali, i colori trascendevano cromatismi magnetici, fluidi adrenalinici scivolavano sulle pareti di acciaio pesante, forme apocalittiche di centrali nucleari sui bordi atomici del futuro, simbiosi, trasmutazioni molecolari, nomadismi iperbolici nelle scissioni a bassa temperatura, gli esperimenti spaziali, le tute bianche e gli sguardi in macchina, continua a girare suggeriva un assistente dalle sembianze metamorfiche, evolversi, evolversi, era l’appello delle entità aliene che trascrivevano complessi scenari geometrici in serie interminabili di combinazioni binarie, prossime partenze per l’India, il Nepal e le foreste amazzoniche per realizzare documentari sciamanici, riprese in volo e primi piani di insetti giganti, foglie e schemi di registrazione, cliniche asettiche, corridoi imbottiti, John mi passava una pasticca, la spezzavo a metà e ne inghiottivo una parte, beatsviolenti e martellanti nell’oscurità, le oscillazioni del fuoco e quelle dei corpi, stelle nel cielo, nuvole e masse di buio, tenui respiri e fiumi ininterrotti di parole, ricordi, drammi infantili, John annuiva e intanto mi dava un po’ di erba per rollare una canna, bisognava spogliarsi dalle proprie inibizioni, uno strato alla volta, fino ad arrivare al centro pulsante del proprio essere, assumevano droghe per questo, sperimentalismi psicologici di matrice chimica, mi trovavo d’accordo con lui e annuivo in silenzio, sapevamo entrambi che la strada del ritorno poteva essere ritrovata e che le probabilità di perdersi per sempre erano le stesse. Gli uccelli tessevano richiami e sonorità ancestrali nell’alba, guardavo il mondo svelarsi ai miei occhi, i pensieri galleggiavano, qualcuno ci avrebbe detto cosa fare e finalmente avremmo capito. O più semplicemente dimenticato.

mercoledì 31 ottobre 2018

flashback #3 - musica

Ho lasciato che la musica guidasse gran parte dell’esperienza ed è stata una saggia scelta. Le strutture melodiche e armoniche delle canzoni hanno formato una sorta di percorso sicuro nel quale potessi muovermi da un punto di vista emotivo, una specie di rete di protezione interiore, non mi sono mai sentito triste o malinconico (come tante volte mi è successo quando mi sono confrontato con le mie emozioni) ma sempre consapevole di essere parte e fulcro della mia vita, che la paura non era altro che una costruzione mentale e che potevo spostarmi liberamente in tutte le direzioni che desiderassi senza nessun timore di perdermi. 

martedì 30 ottobre 2018

Artist Valley #11

Ero steso per terra, sporco e vestito male, Michael era vicino a me e cantava a bassa voce canzoni ancestrali, c’era una dolcezza in quei suoni, la voce di un padre e quella di un antico maestro e mangiavamo da ciotole di terracotta: mais, carne e frutta, c’erano vibrazioni dorate nell’aria e dall’apertura centrale del teepee nel quale eravamo seduti scendevano obliqui i raggi del sole, frammenti di splendore che le nuvole lasciavano passare per poi sciogliersi in pioggia e fruscii d’acqua come melodie di primavera, mi guardavo le mani ed erano piene di piccole ferite e la pelle sembrava leggermente più scura e morbida, non possedevo nulla, ero libero da qualsiasi illusione e aspettativa, ero in uno stato di purezza assoluta e Tom è entrato dalla piccola porta di legno, lasciandola aperta e di fuori gli alberi si muovevano in colori nuovi e trascendenti le cui sfumature appartenevano solamente ai sogni o a quel mondo di meraviglia, mistero e stupore, il Nagual, che si manifesta oltre la soglia delle nostre normali percezioni, sono uscito e ho camminato nella realtà e ogni cosa era viva e la potevo sentire all’interno del mio stesso essere, ogni filo d’erba, ogni foglia, gli insetti, le cortecce, la terra, i rami e ogni manifestazione dell’esistenza era unita da pellicole di luminosa trasparenza, ero sbalordito e incapace di esprimere razionalmente la bellezza da cui ero circondato e di cui facevo parte, Michael mi ha raggiunto, dicendomi che il temazcal era pronto, ho guardato all’interno dei suoi occhi, c’erano oceani di azzurro splendore in iridi di gioia e umana comprensione. 




domenica 28 ottobre 2018

freewheelin' #39

Rosso. Tessuti anamorfici su superfici tessili. Morbidi contatti epidermici. Lente visuali semisferiche. Una scala per raggiungere il palco. La sedia nera. Isolata e silenziosa. Le quinte neoclassiche con disegni stilizzati di antiche dimore elleniche. Un sipario aperto e ondulato. Il pianoforte striato da ombre e attese. Le melodie composte nelle mattine di nebbia e freddo. Gli ultimi strati di nuvole che il cielo spostava. Neon rosa in tramonti elettronici. Le statue racchiuse in angoli prospettici. Diverse dimensioni che gli oggetti assumevano fra giochi e illusioni ottiche. Gli spalti vuoti. I contenitori di vetro all’interno di una teca impolverata. Le sostanze. Le orme che lasciavano passi. I passi che diventavano percorsi. Chi avevamo seguito negli inganni del tempo. Chi non avevamo più ascoltato. Chi aveva accolto l’oblio di sinfonie e impressioni. E ancora la notte con le sue tentazioni di cosmi e universi e ancora il giorno con le sue acrobazie di luce e riflessi e i volti dalle balconate ovali ad attendere applausi che non sarebbero mai arrivati. Bolle di elettricità statica. Titoli inventati per film inesistenti. Girava la pellicola a velocità supersonica, barriere sonore esplose in inseguimenti aerei, le strade assolate delle metropoli quadrate, le nuove geometrie metropolitane che solo obiettivi alieni potevano trasformare in codici di insegnamenti primitivi, saremmo di nuovo stati tutto ciò che si era estinto, le civiltà sommerse, quelle svanite, le divinità decapitate, quelle esplose in rituali di annientamento, ancora le estasi di scritture parallele, in cui si moltiplicavano oltre ogni possibile logica le direzioni narrative e le loro trame, mattoni lucidi come sogni di palazzi onirici, le stanze che si accumulavano dietro porte di metallo nero, i corridoi senza un’apparente fine, un immenso autobus fermo in un parcheggio della memoria, i lavori offerti da loschi personaggi, le promesse che il denaro avrebbe nascosto in un ghigno di invitanti promesse, i nuovi bisogni, le false circostanze in cui ognuno mentiva a se stesso, la musica continuava il suo ritmo di idee e immagini, brevi danze sugli orli di un perimetro di alabastro, le vene della pietra, il dischiudersi di una viaggio che continuava a fabbricare parole e visioni, le lettere che lo scrittore accarezzava su pagine di sabbia e tramonti lontani, un altro bicchiere di gin e tonic sarebbe stato preparato sul bordo di una piscina tropicale, i colori che sfumano, l’aria calda, le labbra morbide, ce ne saremmo andati via anche da qui, prima che le pareti di questo teatro dell’inconscio diventino cenere e pallida malinconia.

venerdì 26 ottobre 2018

Copenhagen #1

Le pareti bianche e i tagli della luce in sezioni geometriche sul pavimento di legno pallido, fuori dalle finestre rettangolari c‘erano forme architettoniche splendenti e i rumori di una città in fluido movimento, le biciclette che scivolavano silenziose sui bordi delle strade e i canali come vene azzurrine di un corpo urbano rappresentato su mappe d’immaginazione e storie inventate. C’era una volta, ancora una volta, un arco teso su possibili mondi di personaggi irreali, ogni inizio che la fantasia trasformava in un’esplorazione di parole e sentimenti, scrittori con lunghe barbe a punta seduti in stanze di memorie tappezzate di damasco rosso, la pipa in bocca e gli occhi rapiti dal crepitare della legna nel camino, passavano gli inverni come pagine bianche da riempire di favole, ponti sospesi sul futuro, stili essenziali di visione postmoderna, lo sguardo che si manifesta in sensazioni tattili e fisiche, curve e linee che diventano spostamenti umani nello spazio, perimetri emozionali come scatole nere di saperi in continua evoluzione, sinergie cognitive, quartieri di suprematismo elettronico dove ogni attività artistica era stata manipolata e automatizzata, passavamo le nostre carte magnetiche su sensori invisibili, si aprivano e chiudevano porte d’emergenza intellettuale, si effettuavano pagamenti con denaro inesistente, codici, serie di numeri, contatti proibiti di polizze sanitarie, cliniche psichiatriche e manicomi in cui rifugiarsi nell’attesa dell’apocalisse, distorsioni di specchi sciolti nel vetro, sospetti cromatici, non c’era più nessuna paura che valesse la pena rendere reale, nessuna paranoia, eravamo rinchiusi in un recinto di protezione esistenziale, nemmeno la morte sarebbe stata la fine, un ennesimo passaggio, ampliavamo i nostri confini, intrecciavamo barriere come spirali di estasi solitarie, le chilometriche file dei tralicci dell’alta tensione, i ronzi della colonna sonora, il rumore bianco, le alte torri che si illuminano in astrazioni lampeggianti e scintillii acidi.

lunedì 22 ottobre 2018

Artist Valley #10

Visioni oscure, masse nere, figure ancestrali e corpi e cadaveri seduti in un cerchio di buio, le pietre roventi, le eiaculazioni di acqua e vapore, le gambe aperte della roccia e i suoi fluidi liquidi scroscianti, l’uomo poggiato sui talloni, nudo, il membro gonfio  e in erezione, gli antichi rituali di vita e morte, gli dei della fertilità e quelli del regno dei morti.
La bottiglia era piena di un liquido rossastro e sanguigno, amaro e grumoso, le cortecce di alberi giganteschi nella giungla, gli ambienti sonori, sferici e avvolgenti, il frusciare delle ali di un uccello invisibile, le piume che lo sciamano muoveva per cacciare via impurità e malattie, il ritmo cardiaco e incensante del tamburo, i canti vegetali e le voci aliene, i movimenti intestinali, i rigurgiti, i residui tossici che lo stomaco espelleva fra canzoni di guarigione, l’uomo della medicina era seduto davanti all’altare della mezza luna, ancora ombre, sulle pareti della tenda indiana, doppi silenziosi che scivolavano ovunque, proiezioni psichiche della luce e del fuoco che prendevano vita e si muovevano solenni e misteriose, le preghiere e la terra e i giorni che il mondo aveva dimenticato perché non erano mai esistiti, chiudevo gli occhi e qualcuno parlava al mio cuore, per sanarne le ferite, c’era un peso, una presenza di tenebra e dolore, una porta chiusa, una voce ormai muta, i serpenti, gli animali selvaggi, le geometrie auditive e quelle della mente, assenza di materia in sguardi freddi e primitivi, c’era una coscienza, un sapere, una forma d’intelletto e comprensione che trascendeva la nostra cultura scientifica e materiale, una realtà diversa che le percezioni accoglievano una volta liberate dai blocchi della razionalità, anni di istruzione istituzionalizzata non sono stati altro che una gabbia psicologica e cognitiva, un addestramento forzato alla normalità, alle giacche e alle cravatte e agli orari di apertura e chiusura, alle strade di città gremite di anonimi volti e serie infinite di sconosciuti, i messaggi telepatici, le intuizioni degli occhi, la vita che proseguiva e si ampliava nella dimensione del sogno, dove provavo a mettere ordine agli eventi del passato, a quello che era accaduto e scomparso, a tutte le cose lasciate a metà: le separazioni, gli addii, le inevitabili interruzioni. I volti che tornavano a parlarmi, perché ci fosse un chiarimento che non era mai avvenuto, li ascoltavo, li lasciavo andare, perché in quel luogo nulla era reale eppure profondamente vero, poi tornavo nel mondo ordinario, i passaggi che stavo imparando ad attraversare, i primi segni dell’alba nel cielo, i respiri che diventavano profondi atti di coscienza, una mano che scrive, l’altra che afferra dita che sembrano svanire oltre i confini di liquide memorie.

sabato 20 ottobre 2018

Artist Valley #9

Non avevamo più avuto notizie di Stephen per una settimana, dopo che era scomparso nel nulla, senza dire una parola, semplicemente svanendo nel tempo e nello spazio. Poi la polizia lo aveva trovato in un ospedale a Birmingham, intrappolato in una sorta di coma etilico, i dottori scrutavano la sua cartella clinica in cerca di possibili spiegazioni e anche noi ci chiedevamo chi fosse questa persona e quale fosse la sua vera storia, lo scrittore si era rinchiuso nella sua piccola stanza psichedelica e forniva dettagli e intrecci. I genitori vivevano a Singapore, il padre era stato un importante direttore di un’infame multinazionale, l’adolescenza passata in Australia, l’amicizia con uno spacciatore, i problemi con l’alcol e la dipendenza, una figlia lontana, sorridente da foto mai scattate, i paesaggi invernali di una Francia perduta. 
I cambi di sceneggiatura e le riprese di una macchina in movimento su una strada estiva, lo scrittore era al volante e Fleur era seduta di dietro e gli poneva domande a cui non ci sarebbero state risposte. E ancora la sala degli incontri e uno dei vecchi capi che era tornato a farci visita, uscito di prigione e forse ancora più imbastardito di prima, era sorridente e aveva un nuovo taglio di capelli, accarezzavo con calma la pistola che avevo in tasca. Le strutture mentali che la matematica non avrebbe mai spiegato, i nuovi edifici che accoglievano uffici di deprivazione sensoriale, c’erano ancora riflessi sui vetri e sorrisi e occhi attraverso i quali osservare sé stessi, l’amore di una notte e quello del mattino, le lunghe dita dell’aurora, i giorni che svaniscono fra labbra nude e addii.

mercoledì 17 ottobre 2018

Artist Valley #8

Sentieri grigio ardesia e pietre traslucide bagnate, forme fluide scivolano sotto il mio corpo in movimento, terriccio rossastro, aghi di pino marroni in composizioni stilizzate, i volti nascosti nei tronchi degli alberi, il verde intenso e oscuro ai lati dello sguardo, i morbidi strati di muschio in ondulate linee, striature metalliche nell’aria e gocce di pioggia in espansione da punti di caduta verticali, concentriche piatte sfere, vento invisibile e rami che oscillano nel vuoto nebbioso, echi di silenzio nella mente, metamorfosi naturali e leggeri spostamenti nei limiti del campo visivo, infiniti spettri di colori nelle continue manifestazioni dell’eternità dorata, il respiro regola le percezioni, la barca si muove senza rumore sullo specchio del lago, trafitto da miriadi di aghi molecolari di idrogeno e ossigeno, la baracca sulla sponda, il fuoco da accendere, le pipe in un angolo, le coperte, le pentole, tutto antico, tutto lasciato e ritrovato, i racconti scritti su di un libro impolverato riposto su una mensola, i disegni dei folli, la notte che avanza e con lei il mistero dell’universo, osserviamo le fiamme, fumiamo lentamente, dondoliamo nell’oblio della natura e della sua presenza, le stelle esplodono nel cielo, il freddo mormorio delle frequenze cosmiche, tutto rallenta, tutto si ferma, il libro che cade fra le dita e sprofonda nel tempo.

sabato 13 ottobre 2018

Artist Valley #7

La tempesta aveva fatto cadere decine di alberi e pali del telefono e ci aveva tagliato fuori dal mondo e dalle comunicazioni per parecchi giorni. Avevamo cibo a sufficienza e alcol e droghe e quindi nulla ci metteva fretta, passavamo le giornate distesi sui tappeti, a osservare gli intarsi floreali del soffitto muoversi e danzare, i colori acquisire grottesche profondità e lo spazio tridimensionale convergere in nuovi piani liquidi e densi di suoni, quando qualcuno iniziava a improvvisare sul pianoforte e le note gocciolavano e si intrecciavano ai fili armonici di luce nati dalle corde di una chitarra e alle dense e oscure pulsazioni cardiache di un basso elettrico e ai ritmi tribali e ipnotici scanditi dalle percussioni, per poi rallentare e amplificarsi in visioni metropolitane notturne e i quadri e gli oggetti che raccontavano storie per immagini e un uomo con un occhio solo che filmava dalla sua personale macchina da presa mentale e decostruiva il flusso della vita in sequenze che qualcuno avrebbe poi rimontato in incastri onirici, deliri schizofrenici, intuizioni dadaiste, era come tornare indietro ai tempi delle avanguardie storiche e sperimentare tutto quanto da capo, lasciarsi andare alla pura esperienza artistica e distruggerla un attimo dopo, nessuno sarebbe venuto a cercarci, nessuno avrebbe disturbato questa fittizia ibernazione poliedrica, c’erano schemi esagonali in strutture architettoniche futuristiche, esempi di follia creativa usati per riorganizzare la vita sulla terra in ecosistemi utopistici dove le idee, i pensieri e le logiche astratte finivano per confluire in un unico progetto di inaudita potenza rivoluzionaria e poi canzoni, danze, poesie e romanzi, sinfonie, film e atti unici, drammi e improvvisazioni, comunità che si formavano seguendo gli impulsi del desiderio e dell’amore, questa parola che generazioni precedenti avevano affisso sui muri di società simili a prigioni, nella speranza che qualcosa sbocciasse e fiorisse, che ci fossero ancora carezze e abbracci e una nuova possibilità di incontrarsi sulle linee della pelle e del destino per rimodellare così la nostra stessa umanità e spedirla poi nelle galassie dell’inconscio, nelle dimensioni ultraterrene degli universi interiori, dove perdere definitivamente ogni divisione senza più sapere cosa fosse maschile e cosa femminile, in una unità di origine e crescita, divinità blu e sguardi miti, fluidi sessuali rosa e violacei e incontri oltre la porta delle percezioni, ormai aperta e dischiusa, come la gambe di una giovane fanciulla rapita dai propri sensi, la neve continuava a cadere e i giorni a trasformarsi e ognuno parlava in silenzio e ascoltava gli altri ad occhi chiusi, nell’infinita e fluida meraviglia di vederli reali per la prima volta.

venerdì 5 ottobre 2018

dream #80

Stanze di alberghi, una mascherina nera sugli occhi, un ragazzo con una videocamera digitale in mano, sono sdraiato su un letto, sotto le lenzuola, Robyn entra dalla porta senza parlare, vestito da donna, il ragazzo continua a riprendere, scene di un film erotico privato, osservo la mia immagine, il mio doppio onirico, su uno schermo televisivo degli anni cinquanta, sono seduto su un divano, una ragazza al mio fianco, i suoi piedi velati da calze nere scivolano sul mio volto, li bacio, sono così morbidi, poi le accarezzo le gambe, lei mi sussurra se voglio un acido, annuisco, lei prende una piccola scatola di plastica colorata, la apre e mi passa un minuscolo cartoncino, lo metto sotto la lingua, poi la bacio sulle labbra, mi alzo ed esco dalla stanza, cammino per i corridoi di un hotel, perdendomi in essi. Partenze, automobili ferme in attesa, giardini proibiti, David cha salta una staccionata, si gira e mi sorride, i bagagli da sistemare, tutte le case in cui non ho mai vissuto, una voce che mi chiama da lontano, dicendomi di tornare, poi il rumore della pioggia e finestre disegnate su muri di ricordi.

mercoledì 3 ottobre 2018

Artist Valley #6

David parlava dal piccolo schermo di un telefono cellulare, strano e lucente personaggio dostoievskiano rinchiuso nella sua cella di ritiro spirituale in un monastero scozzese. I richiami telepatici dell’ayauasca lo collegavano attraverso i sogni ad altre presenze del subconscio, esseri alieni dagli infiniti spettri cromatici e psichici. Gli occhi di un gatto che mi guardavano, antiche percezioni egizie e la punta della Piramide e il centro di un quadrato come istruzioni geometrico-spaziali per spiegare il mio ingresso in flatland. Fuori nevicava e Stephen disegnava mappe con matite colorate mentre io catalogavo semi di piante psicotrope e allucinogene, poi durante la notte mi sintonizzavo, ad occhi chiusi, alla mind-tv,dove andavano in onda episodi della mia vita, montati in ordine casuale, con sequenze che si sovrapponevano le une alle altre, precipitando in ellissi di tempo passato per poi esplodere in emozioni e stati d’animo presenti, le coperte gialle, la stanza blu, il laboratorio segreto in cui John ancora sintetizzava acido lisergico, le montagne che racchiudevano segreti, gli alberi che oscillavano mormorando nel vento, le creazioni di ghiaccio e acqua, hasta el infinito siempre, urlavano i nuovi rivoluzionari psichedelici, ogni battaglia era stata persa e dimenticata perché combattuta nei luoghi sbagliati, gli scienziati finivano per ridurci in molecole e atomi, saremmo stati divisi fino ad arrivare al nulla, il vuoto buddhista ricomponeva teorie e assiomi, siedi in silenzio nell’ombra di te stesso, osserva il tuo respiro, tutto appare e scompare in una ciclica perfezione.

lunedì 1 ottobre 2018

flashback #2 - emozioni, sentimenti, vita, morte

E’ possibile spostare la propria attenzione, durante l’esperienza psichedelica, in maniera abbastanza semplice. Ho dimenticato la bellezza degli effetti visivi per concentrami sul mio mondo interiore, non c’erano più barriere dentro di me, potevo scorgere nitidamente le mie emozioni, soprattutto mentre ascoltavo la musica. Canzoni che mi erano care o familiari (House of Cardsdei Radiohead, specialmente) riuscivano a toccare parti di me stesso, è stato come essere un neonato e associare per la prima volta sentimenti di gioia e felicità a stimoli esterni, la musica era tangibile come fosse una carezza o un abbraccio o una manifestazione fisica di affetto e amore. Quando siamo ancora rinchiusi nell’utero materno siamo una unità e questo stato perdura anche nei primi mesi di vita, mano a mano che il nostro cervello inizia a conoscere, immagazzinare, assorbire, ordinare e reagire agli stimoli esterni comincia anche la frammentazione, poi quando impariamo a parlare ci muoviamo nella fase di concettualizzazione verbale e tramite il linguaggio finiamo per perdere definitivamente quell’unità originaria.
Dice Shunryu Suzuki – Prima di nascere non avevamo alcuna sensibilità; eravamo tutt’uno con l’universo. Questo stato si chiama “sola mente” o “essenza della mente” o “grande mente”. Dopo che veniamo separati da questa unità a causa della nascita, come l’acqua che cade da una cascata viene frammentata a causa del vento e delle rocce, allora riacquistiamo una sensibilità. Avete difficoltà perché avete una sensibilità. Vi attaccate alla vostra sensibilità senza sapere proprio come questo tipo di sensibilità si venga a creare. Quando non vi rendete conto di essere tutt’uno col fiume, o con l’universo, avete paura. Frammentata in gocce o no, l’acqua è sempre acqua. Vita e morte sono la stessa cosa. Quando ci si rende conto di ciò, non si ha più paura della morte, né effettiva difficoltà nella vita.
Poi mi sono sentito molto vecchio, steso sul letto, con una sensazione di freddo interiore e di estrema stanchezza, all’improvviso una luce bianca ha avvolto il mio essere, la chiara luce della trascendenza buddhista o della morte, tutto questo è avvenuto senza la minima traccia di paura o apprensione, perché era assolutamente naturale e già presente dentro di me.

sabato 29 settembre 2018

freewheelin' #38

Coltivatori di marijuana nascosti nelle valli del Cile, verdi onirici fluenti come chiome di alberi oscillanti nel vuoto, il fucile puntato allo stomaco, i soldati che inseguivano sovversivi travestiti da contadini, la stazione del treno, gli agenti in borghese seduti su panchine di cemento e paura, nelle stanze della Grande Villa si incontravano uomini provenienti da nazioni sconosciute, i giovani fumavano hashish e costruivano incomprensibili strumentazioni meccaniche in grado di controllare i respiri, i cavi, gli elettrodi, la paranoie che alcuni insaziabili insetti rendevano reali sulle pareti, negli angoli, negli interstizi di piani temporali obliqui e sul punto di sciogliersi, i minuti e i secondi gocciolavano in ritmi di eternità che nessuno avrebbe più seguito, le vie colorate di Valparaiso, un cammino che sarebbe finito con il tuo ultimo respiro, la strada verso casa, gli incontri che ti avrebbero trattenuto, i fantasmi con graziosi occhi, lucenti e chiari, il silenzio era l’ultima barriera, la difesa che i monaci ti avevano insegnato, i giardini di pietra e quiete, i nodi delle cortecce come occhi immobili, i sospiri fra i rami, un uomo seduto in disparte, i treni che il vapore disegnava attraverso stazioni di mattoni e ferro, le mani tese, le dita che accarezzavano bagliori di luce, le superfici in movimento, la meraviglia, quel giorno in cui il mondo era attraversato da fili di pura energia, camminiamo per tornare da dove siamo venuti, sapendo bene che non arriveremo mai.

venerdì 28 settembre 2018

Artist Valley #5

Ero in uno spazio interiore, geometrico e tridimensionale, con griglie colorate di dati  in movimento che qualcuno stava trasmettendo al mio cervello, sembravano appartenere a un’antica e ormai scomparsa civiltà precolombiana, erano informazioni che oltrepassavano il normale piano logico razionale per espandersi in universi di telepatica comunicazione. Mi domandavo se fosse possibile incontrare altre persone in questo luogo privo di apparenti confini fisici, dove si potevano scambiare pensieri senza ricorrere all’uso del linguaggio verbale, quali segreti avevano scoperto ed esplorato i sacerdoti mesoamericani attraverso l’uso della psilocibina? Quali imperi della mente avevano costruito di cui le rovine che si trovavano nelle giungle non erano altro che una copia di pietra e gravità? 
Ero immerso in questa nuova dimensione, cercando di decodificarla e capirla, quando Roland è entrato nella stanza e si è seduto sul letto vicino a me, era impaurito e aveva bisogno di parlare, allora ci siamo presi per mano e lui ha iniziato a tranquillizzarsi e io ho lasciato quel luogo del passatopresentefuturo per ritornare all’esterno di me stesso, le proporzioni della camera erano ondeggianti, con la costante sensazione di vederle respirare, continuavo a controllare l’aria che arrivava e usciva dai miei polmoni e in questo modo c’era sempre qualcosa di familiare a cui potessi ricondurre la mia attenzione, i disegni sul pavimento si muovevano come sotto la superficie dell’acqua e sul soffitto si creavano leggere composizioni di fumo, modellandosi in astratte figure, io e Roland abbiano cominciato a chiacchierare, anche se trovavo difficile esprimermi attraverso le parole, sembravo essermi scollegato dal canale che trasformava i pensieri in lessico, potevo osservare le sinapsi che si occupavano di questo lavoro sdraiate a rilassarsi su una spiaggia cerebrale di sabbia bianca mentre i flussi di immagini sinestetiche costruivano altri codici i cui materiali andavano ad organizzarsi in avanzate architetture di complesse semiotiche aliene. 
Il volto di Roland si trasformava leggermente secondo dopo secondo, era divertente osservarlo, in alcuni momenti mi sembrava come una specie di gallo, poi un neonato, poi ancora una creatura fiabesca, abbiamo iniziato a giocare in questo modo, attraverso maschere e costumi e suoni e musica e guardandoci dentro e aprendo in maniera semplice e naturale gabbie comportamentali e culturali, non c’erano più distinzioni sessuali in lui, quindi la sua parte femminile si esprimeva in maniera libera e creativa, io assecondavo il suo modo di fare, sentendomi fluido e non imbarazzato, ci stavamo conoscendo in una maniera così rapida e meravigliosa che avevo cominciato a sentirmi come alla presenza di un vecchio amico, nel senso di qualcuno che ti conosce da tanto tempo e con cui puoi intenderti alla perfezione con una semplice occhiata. 
Inventavamo personaggi e ci muovevamo leggeri su queste pagine di fantasia, ho steso un tappeto sul pavimento e ho acceso una lanterna, mi sentivo un marinaio, poi una specie di califfo, nella sua tenda, mentre prepara un narghilè, seduto fra i suoi cuscini e il profumo dell’incenso, Roland è arrivato con del tè e una specie di tunica che si era arrotolato addosso e abbiamo continuato a parlare, poi mi sono sdraiato sulla schiena e ho semplicemente respirato e lui ha messo una mano sulla mia pancia e una sul petto, ho sentito il calore dei sui suoi palmi e lui mi ha chiesto perché il mio cuore fosse chiuso e se ci fosse un modo per entrarci, gli ho sussurrato che era un luogo speciale, potevo veramente osservarlo e percepirne la solidità, aveva smesso di sanguinare, aveva smesso di farmi soffrire e fino a quando avrei potuto lo avrei lasciato così, questo non significava che non avrei più amato, solo che lo avrei fatto in maniera diversa. 
Poi siamo rimasti in silenzio ad ascoltare la musica, melodie indiane, piene di grazia e gioia per il dono della vita, continuavo a sentirmi leggero, non c’era nessuna fretta, nessuna paura, nessun desiderio. 
Ho aperto gli occhi e le travi del soffitto ancora ondeggiavano leggermente, colme di grazia e incanto, come morbidi sogni di legno avvolgente. 

giovedì 20 settembre 2018

Artist Valley #4

Il centro del quadrato era anche la punta di una piramide vista dall’alto. 
Una donna discuteva di quanto il mercato dell’aglio fosse ormai in mano ai cinesi, si stavano impadronendo di tutto, i bastardi e c’erano nuvole violacee che si muovevano nel cielo mentre ero seduto a guardarle attraverso una finestra, un cappello di lana infilato in testa e le cuffie nelle orecchie, i Chemical Brothers che potenziavano gli effetti dell’acido e ogni cosa era chiara e nitida e il pensiero scivolava senza blocchi, spostavo l’attenzione ed ero una sola cosa con ciò che si manifestava nella mente, non c’erano distinzioni, non c’erano intrusioni, la bellezza estatica delle forme in movimento superava ogni immaginazione, i ricami floreali di un tappetto danzavano in coreografie sublimi, avrei potuto passare tutta la mia vita in questo modo, in un trascendente rapimento dei sensi, il flusso del tempo mi trasportava con sé in maniera concreta, secondi e minuti e atomi di eternità, la musica era un vascello a vele spiegate su un oceano di melodie liquide che toccavano il mio essere e il mio spirito come pure scintillanti emozioni, la bianca luce della morte/vita e la chiara consapevolezza di essere qui e ora, in un attimo espanso oltre i limiti del giorno e della notte e del loro infinito alternarsi, i paesaggi che svanivano in visioni interiori e gli psiconauti che parlavano di mondi al di là dello Spazio e spore aliene atterrate sulla Terra e sorrisi e occhi che diventavano come varchi negli universi femminili che mi passavano davanti, la quiete del silenzio a gambe incrociate, il respiro dell’acqua in ruscelli e piccole cascate, lo scintillio della luce nelle molecole che racchiudevano il vuoto, qualcuno si era seduto nella posizione del loto sotto un albero di sogni, illusioni e risvegli, c’era ancora un ultimo bagliore da amare, una delicata voce da ascoltare, il volto di uno specchio solitario, il coraggio di chi ha imparato ad aspettare, i tramonti che abbiamo sussurrato nella nostra giovinezza, tutto quello che è passato e che i ricordi accarezzano per rendere il destino meno crudele, i leggeri brividi lungo la schiena, sulla pelle e fra le dita e i baci scambiati fra le risate d’argento delle stelle, ogni fiore che abbiamo visto sbocciare non è altro che l’armonioso suono della bellezza e del suo incanto dai mille colori.

venerdì 14 settembre 2018

flashback #1 - effetti visivi

Gli effetti visivi sono i primi ad apparire, le superfici delle pareti e degli oggetti iniziano a muoversi, creando schemi geometrici o semplicemente liberi dalla normale percezione. Lo spazio può curvare, le linee diventare ondulate. Sono rimasto meravigliato dalla bellezza di queste forme, avrei potuto passare un intero pomeriggio a osservare i ricami floreali di un tappetto appeso alla parete. Ogni dettaglio era in movimento, come se danzasse in un’armonia propria (everything is broken up and dances). I quadrati sulla coperta creavano strutture ad incastro, oscillando in una leggera brezza, i disegni sulla moquette erano come mossi da un moto ondulatorio marino, la porta respirava, le ombre sul soffitto erano pure intuizioni architettoniche. 
Sono stato seduto su una poltrona ad osservare il cielo, ascoltando i Chemical Brothers, le nuvole formavano composizioni meravigliose e i colori pulsavano in tonalità azzurre, violacee e purpuree. Questo stato di estatica contemplazione è solo la superficie dell’esperienza, quella da cui si è sviluppata tutta l’arte psichedelica: la musica, il cinema, i manifesti. Le distorsioni auditive e visive, i tagli veloci e senza conseguenze logiche del montaggio, le enormi lettere che perdevano le normali proporzioni alfabetiche nei poster di quel periodo. Negli anni sessanta l’acido è stato uno strumento di potenza inaudita dato in mano a una generazione di ragazzini, è stato poi sfruttato dal mercato dell’epoca che ne ha intuito le potenzialità commerciali e poi è stato sostituito, commercialmente, da altre droghe e altre mode.

giovedì 13 settembre 2018

Artist Valley #3

Il modo in cui Diva mi ha abbracciato, prima di andare via e ne ho sentito il  corpo e il cuore battere e il respiro e poi la voce scivolare nel mio orecchio ed espandersi nella mente e nelle emozioni di pochi secondi, in un sussurro mi ha chiesto se volessi l’ultimo acido e le ho risposto di si, poi mi sono allontanato per sparire in una macchina e muovermi verso strade e curve e asfalto e immagini veloci ai lati dello sguardo e poi un parcheggio dove un branco di hippies aspettava terra organica per le proprie piantagioni di marijuana e i loro occhi erano strumenti di precisione emotiva e potevo guardarci dentro e scorgere vite che ricreavo poi, attraverso la scrittura, nella mia immaginazione.
Ben ha bussato alla porta del mio cottage, gli ho aperto e mi ha invitato nel suo, l’ho seguito e lui e Diva erano nel bel mezzo di una esperienza lisergica e mi sono seduto a gambe incrociate su un tappeto e li ho osservati e ho parlato con loro e stranamente mi sembravano perfettamente comprensibili i discorsi che facevano, le loro menti infrangevano barriere razionali che avevo abbandonato da tempo e allora ho avuto un pensiero improvviso, che tutta la mia vita, tutti i giorni che avevo passato su questa terra non erano stati altro che un susseguirsi di stati di coscienza personali ed esistenti soltanto nella mia testa, era più nitida adesso questa sensazione, soprattutto quando conoscevo gente nuova, era come se mi aspettassi che loro sapessero tutto di me e invece ogni volta dovevo raccontargli la mia esistenza da capo, quella storia sempre uguale a se stessa che ripetevo a sconosciuto dopo sconosciuto, fino al momento in cui avessi trovato l’ispirazione e il coraggio di stravolgerla completamente e diventare anche io pura finzione letteraria. Sarebbe stato un meraviglioso traguardo quello di perdersi fra le proprie frasi ed essere parte di questo romanzo che andava avanti da oltre venti anni, frammentato, disperso, in cui la voce dello scrittore continuava a parlare, ricordandomi tutto quello che era successo e il modo di ricollegarmi a ogni singola memoria ed esserne parte nelle immagini della sala proiezioni cerebrale e Diva disegnava una linea ondulata su un grande foglio bianco e cercava di spiegarmi che quello era il tempo e dove, su di esso, si trovavano i decenni e quel tratto di penna curvava e girava e s’intrecciava con quello precedente, mi sono versato un altro bicchiere di vino rosso e rollato uno spino d’erba e ho continuato la nostra conversazione, poi mi sono addormentato e risvegliato in un sogno in cui ero uscito fuori dal mio corpo e avevo visioni e le mie mani cambiavano forma e dimensione e poi una sequenza girata dall’alto in cui la macchina da presa si avvicinava a un incidente, con corpi inermi sull’asfalto coperti da un lenzuolo e poi i baci che Aisha mi ha dato in un’altra notte di improvvisa e stravagante bellezza e la maniera in cui mi ha sedotto, così diretta e dolce e le sue labbra erano i giochi di una ragazza lucente e poi il modo in cui ho visto la sua anima, la mattina dopo, fra i riflessi dorati del giorno e quelli dei suoi occhi. E poi il silenzio del cielo e delle nubi e il grigio dell’aria che nascondeva i colori e le forme e un altro saluto e le ore passate con Maria a Dublino e ogni momento in cui non sono stato in grado di amarla nel passato, ogni momento in cui me ne sono dimenticato, sapevo che era ancora parte di me e che lo sarebbe sempre stata e che un domani, fra le calde onde dei giorni che si infrangeranno sul mondo, io sarò ancora accanto a lei. 

domenica 9 settembre 2018

senza titolo

Qualcuno doveva aver alterato la linea degli eventi, facendo confusione fra passato e presente, incanalando il flusso della vita in un loop di avvenimenti senza senso, avevo ancora il coraggio di scrivere e questo significava disporre le parole nell’ordineche io volevo, gli ingegneri del suono modificavano gli ambienti acustici per creare simulazioni mentali di rumori inesistenti, flussi di macchine e richiami di uccelli, gruppi di persone e frusciare di alberi e immagini di strade che non mi avrebbero portato in nessun luogo e per questo bellissime e perdute e ancora sogni e voci di donne dai capelli di argento e città della memoria e dell’abbandono e i rifiuti sull’asfalto, gli avanzi di cibo, le bottiglie vuote, i mozziconi di sigarette, gli stracci, i materassi sfondati, i vuoti della notte nei pensieri del sonno e il tuo sorriso che non riuscivo a dimenticare, gli sguardi che avevo accolto nel mio cuore, i canti che avevo intonato per cercare di farlo guarire, ogni giorno che portava con sé tutto quello che non sarebbe più stato, le parole che ci siamo scambiati lungo le vie di pomeriggi dorati, gli alti silenzi come mura di prigioni abbandonate, sapevo ancora come toccarti senza nemmeno sfiorare il tuo corpo, sapevo ancora come arrivarti dentro senza neanche sentire l’odore della tua pelle, c’erano i tuoi occhi come porte spalancate sul mondo, c’era tutto quello che avevo attraversato, solamente oltrepassando le tue palpebre socchiuse, i segreti che ci siamo rivelati, le promesse che sapevamo bene non avremmo mai mantenuto, c’è un universo di perfetta solitudine in ogni respiro che mi attende, una morte inevitabile in ogni passo che rinunciamo di fare, eppure siamo ancora qui, in un gioco di inganni e riflessi e non ho più paura, amore mio, a dirti quello che provo, perché è solo in questo modo che continuerò a perderti e a ritrovarti per sempre.

giovedì 30 agosto 2018

Artist Valley #2

Saremmo passati dal 3d al 5d, diceva David, era questo il prossimo stadio dell’evoluzione umana, superare i limiti spazio-temporali che ci ingabbiavano ed essere qui e ora in ogni possibile momento del passato-presente-futuro, con connessioni oniriche che trascendevano nazioni e continenti e rituali sciamanici in cui assumere l’ayahuasca con uomini della medicina peruviani, pronti a condurti al di là delle normali dimensioni che la geometria euclidea sembrava avere assicurato come le uniche possibili. Antiche lingue venivano usate per trasmettere segreti e conoscenze, i codici maya, i geroglifici egiziani, le teste enormi e immobili nell’Isola di Pasqua, i cerchi di pietre nelle lande britanniche, i fuochi nel deserto fra le voci e gli sguardi della notte e i libri di Castaneda poggiati sul comodino di legno e l’odore della salvia bianca, così antico e familiare, capace di trasportarti in una memoria collettiva e universale che ci vedeva ancora in stretto contatto con la natura, prima che la tecnologia usurpasse quel potere, trasformandolo in una serie di impulsi elettronici, sequenze di numeri e immagini che avevano canalizzato i nostri sensi. Nei cinema sperimentali si provavano nuove e sintetiche forme di percezione, schermi, suoni, colori, odori, vibrazioni, magnetismi energetici che producevano infinite serie di visioni, ci si proponeva di trasportare le scoperte fatte durante la somministrazione di sostanze allucinogene nelle esplorazioni di nuove possibilità filmiche, mandate a fare in culo i soggetti e le sceneggiature dicevano i produttori, sigaro in bocca e  bicchiere di liquore ghiacciato in mano e concentratevi sul flusso delle immagini, sulla loro forza manipolativa, piegate le menti degli spettatori ai nostri voleri, nuova libertà o schiavitù, titolava un giornale transoceanico a caratteri polidemensionali enormi, le persone lo leggevano nelle metro sotterrane e poi passavano velocemente alla notizia successiva, non che gliene fregasse un cazzo a nessuno, erano solo parole, avremmo costruito nuove piramidi e adorato antiche divinità, complottavano gli architetti psichici nelle loro stanze di riflessi e finestre e pareti plastiche e la musica che avrebbe preso il posto dei materiali per strutturare le metropoli dei sogni, era arrivata una busta rossa con dei biglietti dentro, sarei partito fra qualche giorno, le destinazioni erano ignote, i viaggi attraverso interzone della mente, dove gli scarafaggi battevano le dita sulla macchina da scrivere e il vecchio Lee li osservava con un fucile a canne mozze in mano.

giovedì 16 agosto 2018

Artist Valley #1

Bianchi silenzi e strisce di coca nelle albe alcoliche, le orme immaginarie lasciate su moquette di stupore e gli alberi dalle forme di pensieri immobili, creati durante la notte, i fari della macchina che illuminavano spoglie visioni d’asfalto, i primi raggi del sole che sfioravano le cime delle colline, un altro giorno che non sarebbe stato uguale a nulla, perché passato e futuro non erano altro che ricordi e progetti senza più valore, le enormi casse e le pulsazioni e i divani e le persone sedute a parlare, chiudevo gli occhi e lasciavo la pelle vibrare insieme agli effetti della mezza pasticca che avevo inghiottito, i fuochi che bruciavano nel buio, la voce impastata di David e i suoi folli discorsi in sequenze dilatate e poi improvvisamente frenetiche, come se qualche misterioso alchimista si divertisse con la manopola del tempo, le cerimonie lunari, i tamburi e i canti dell’ayahuasca, i funghi magici che ampliavano respiri e percezioni, i rami nudi che ondeggiavano nell’oscurità, il senso di calore e protezione intorno alle fiamme, poi i sogni e le stanze e gli incontri e il libro nero che non avevo più toccato, ci perdevamo in vite in cui nessuno avrebbe mai pensato di finire, senza ormai  nessun desiderio, nessun legame, niente che potesse assicurare una continuità di ore all’inesorabile caduta, precipizi, abissi, limiti, confini, barriere, allargavamo e restringevamo i nostri vuoti d’aria, perché erano l’unico modo in cui potevamo essere veramente liberi dal pensiero e dalle sue conseguenze, Bosch aveva visto l’inferno nelle nere fessure di braci ardenti e niente rimaneva la mattina dopo di quanto era stato creato e discusso su tappeti di polveri da inalare, risplendevano gli occhi nelle lucide composizioni della mente, non si poteva rinchiudere il proprio cuore nei battiti accelerati di lavori fisici, costruivamo il corpo in strati di muscoli accaldati, sudore e fatica, flussi mentali che colavano in trincee di radici spezzate e terra martoriata e cicatrici lasciate da una guerra che nessuno aveva ordinato, ma era lì la nostra energia sprecata, gli aerei che tagliavano il cielo e la sfera del suono, qualcuno aveva combattuto ed era morto per millenni, l’oscuro potere che giaceva nelle profondità di misteriosi esseri, le piume alzate in ornamenti sciamanici di galli in attesa di attaccarsi a vicenda, i piedi che calpestavano la terra creando ritmi che i tamburi avrebbero moltiplicato in ipnosi sonore, non c’era nulla che avesse senso sussurrare ancora, il cielo accoglieva i tuoi brividi, perché questa era la fine di un giorno mai nato.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...