mercoledì 30 marzo 2022

dream #107

 Una lunga telefonata con Matteo, alternata da silenzi e incomprensioni - Sequenze notturne all’interno delle stanze di un ufficio - Ero con Claudia e lei mi parlava e avevo dei problemi con il mio telefono cellulare, che tenevo in mano, inserivo dei codici ed erano sempre sbagliati - Ero seduto ad una scrivania, dietro a un computer, in ufficio, scambiando mail con una mistress di Berlino, che avrei effettivamente incontrato una settimana dopo e nel frattempo era arrivata una donna che conoscevo, eravamo anche stati amici per un tempo e ci eravamo regalati qualche bacio e una piacevole intimità e adesso era incinta ed era parecchio che non la vedevo e mi sono sentito in imbarazzo quando è apparsa fuori della porta della stanza in cui mi trovavo, non sapevo bene cosa dirle, la mia mente era già proiettata nella camera dei giochi (e delle torture) che mi stava aspettando, anticipandone i piaceri, mi sono alzato comunque e sono andato nel corridoio, c’erano alcune colleghe intorno alla donna e una di loro le ha accarezzato la pancia, ho avuto come un impulso a andarmene, a fuggire da lì, hanno incominciato tutte a parlare insieme e io me ne sono rimasto in silenzio. Ho dovuto ascoltare quelle voci per anni e non mi mancano e sono contento che adesso siano scomparse. A Berlino ebbi un’esperienza meravigliosa.

lunedì 28 marzo 2022

Roma #9

 C’era anche stato il tentativo di cercare e trovare un altro modo di vivere, di conoscere luoghi nuovi e incontrare gente diversa ed ero anche riuscito nel mio desiderio di scoprire e provare situazioni differenti e naturalmente poi avevo fallito nella mia utopica illusione che fosse possibile trasformare i miei sogni in realtà, ci ero andato vicino ma alla fine il problema rimaneva sempre uguale: le persone. E con esse la mia incapacità di averle intorno. 

Dopo cinque anni di peregrinazioni fisiche, mentali, spirituali ed erotiche ero tornato a quella che era sempre stata la mia casa: Roma. E tutto appariva magicamente uguale e diverso, era una sensazione meravigliosa quella dei primi giorni, almeno fino a quando qualcosa o qualcuno non avesse iniziato a turbarmi di nuovo. Sarei fuggito un’altra volta? Difficile dirlo, volevo un periodo di quiete e riposo e mi piaceva la compagnia dei gatti nella casa di mia madre, così silenziosi e calmi, mentre mi guardavano fare le mie solite cose: leggere, scrivere, vedere film. 

E c’era una luce onirica nelle strade e fra le ombre delle persone che catturavo con i miei occhi e un’estetica di profili e anime rubate che avrei dovuto sviluppare e certo che avrei ancora vagato per le vie delle città, a testa alta, ad occhi bassi, ridendo, piangendo, chissà, non che avesse molta importanza, non che ne avesse mai avuta. Gli anni passavano e la mia immagine cambiava, brillante, oscura, ridicola, seducente, riflessa in costanti oscillazioni cromatiche, come nello specchio della casa di Sara, dopo che l’acido aveva cominciato a fare effetto.

Le persone del quartiere, le riconoscevo, sorridendo fra me e me, non se ne erano mai andate, erano ancora qui, neanche ci avevano provato a difendersi da questa società divorata dai morsi degli squali in giacca e cravatta e strangolata dalle leggi del capitale, la avevano accetta e si erano arresi, non potevo biasimarli, avevo fatto come loro, ma il mio era un abbandono cosciente non alla società ma alla vita in se stessa. Ai suoi misteri, alle sue imponderabili direzioni. Qualche poeta aveva detto che il nostro dovere era uno solo: vivere. Aveva ragione e con la vita sarebbe arrivata la morte, un giorno qualsiasi, né migliore, né peggiore degli altri. E volevo essere pronto per quel momento e avere sistemato tutto quello che dovevo sistemare e fino adesso mi sembrava di averlo fatto e anche bene, attraversando le zone d’ombra dell’esistenza e i suoi dubbi, inseguendo gli abbracci del dolore e le calde lacrime e i baci e gli ultimi addii. E sapevo che quasi nulla mi legava più agli altri o ai posti dove per qualche tempo mi fermavo, il futuro si era smarrito, il passato palpitava costantemente nel mio cuore. Non guardarti indietro, non andare avanti, diceva una voce. Nessuno che conosca il mio nome, nessuno che sappia cosa abbia fatto, chi sia stato, le tue parole, le tue parole, i racconti infiniti di struggenti e frementi emozioni smarrite, la calma interiore, ecco ciò che resterà di quella voce che avresti dovuto ascoltare da così tanto tempo, di quel silenzio, di quell’attimo sconosciuto in cui hai capito che nulla era vero e che un giorno saresti scomparso, così lontano da non tornare mai più.


sabato 26 marzo 2022

dream #106

 De Gregori cantava the boxer in italiano e la sua voce era nella mia testa e Sara sedeva al tavolo di un ristorante, in una via centrale di una città e così l’ho salutata e abbracciata e le ho sorriso per poi perdermi di nuovo nei corridoi di palazzi con dentro scie di piccoli uffici, piccoli negozi e c’era quello di un antiquario con mobili pieni di cassetti - Ne avevo aperti alcuni e ci avevo trovato delle videocassette che sapevo contenere dei filmini pornografici amatoriali di quando ero giovane - Poi ho visto il volto di mio zio Marco e mi sono ricordato di quella maniera speciale che aveva di farmi ridere - Tante persone per le strade e la luce del sole che sembrava appiattire ogni cosa e lunghe, lunghe ombre sull’asfalto e la scrittura del subconscio che non sapevo da dove arrivasse, così come non sapevo dove si trovasse l’origine dei sogni - Misteri, silenzi, un anonimo corpo in un mondo di schiavi - Devo tagliarmi la barba e smarrirmi ancora e cercare e vagare - La danza delle stelle in un cielo che la sera trasformava in un’iride di lapislazzuli dolenti, la ragione avrebbe finito il suo stupido lavoro, un giorno, un giorno, sarei stato libero di stare a ghignare per settimane solo per il gusto di non avere null’altro da fare. 

venerdì 25 marzo 2022

Bilbao

 La città appariva in un’alba di fantasmi e simulazioni geometriche, da dietro i vetri oscurati del pullman vedevo i fari delle macchine come occhi opachi di insetti alieni in movimento e le file di palazzi mi sembravano tetre prigioni architettoniche, simulacri visivi per occhi alterati e cubicoli invisibili nei quali le persone si ritrovavano ad essere rinchiuse, potevamo chiamare i nostri bisogni con centinaia di nomi diversi, sarebbe sempre rimasta la necessità di non voler essere come gli altri? 

La stazione di Bilbao era deserta dopo la mezzanotte e mentre scendevo sottoterra l’entrata della metro, alla mia destra, si è rivelata come all’interno di una sequenza onirica, sapevo che se fossi andato in quella direzione mi sarei perso e non avrei più saputo come tornare indietro - Un fremito di paura, una tentazione del subconscio - Poi sono andato a sedermi nella sala d’aspetto e c’era poca gente e non mi interessava chi avessi intorno e un uomo arabo si era incazzato con un altro e gesticolava e borbottava, poi una lunga telefonata e tutto sembrava ridicolo e grottesco e un ragazzo con uno skate mi ha chiesto dove fosse il suo pullman e io gli ho detto che non ne avevo idea e una ragazza si era addormentata su una panca accanto alla sua bicicletta e poi ero sul pullman e attraversavo la notte e ho chiuso gli occhi e non so se ho dormito, ero solo in balia dei respiri e del movimento e dei miei pensieri che svanivano e dei ricordi e mi sentivo vuoto e stanco e per questo libero da ogni preoccupazione e ci siamo fermati ad una stazione e non so che ore fossero e sono sceso e sono andato a pisciare e non avevo la minima idea di dove fossi poi il viaggio è continuato e il tempo si è stancato di scorrere - Ci sono state delle ellissi narrative e flashback ed ero in un bar di Bilbao con Sara a bere vermouth rosso e probabilmente gin e lei mi raccontava dei suoi anni universitari e dei suoi amici e dei luoghi dove aveva vissuto, delle strade, dell’hashish, della vita bohémienne, dei quadri e della pittura e poi stavamo passeggiando lungo il fiume ed era notte ed eravamo in silenzio e un altro bar nel quale le piaceva andare con i suoi compagni di studi, a bere e a immaginare la vita e fuori dal Guggenheim c’era una protesta di lavoratori e sembravano avere ragione in quello che dicevano, poi le parole sono finite e loro si sono messi a ballare e noi abbiamo deciso di non entrare nel  museo e abbiamo vagato per la città e le sue forme, le sue linee, i suoi spazi, i suoi volumi - C’erano ponti e creazioni visive ed attimi di pura fantasia urbana e lungo il fiume c’era una gara di canottaggio e ci siamo fermati a vederla e Sara si sentiva emozionata e orgogliosa di appartenere a questi luoghi e un vecchio signore ci è passato davanti mentre eravamo seduti a bere con un basco nero in testa e un altro si è messo a cantare e poi in un altro bar c’erano vecchie foto di giocatori di calcio e in un altro momento eravamo a Castro ed era notte ed eravamo seduti sul bordo di un marciapiede a bere vino bianco e mangiare frittura di calamari e c’erano parecchie persone intorno e l’aria era vibrante e i vicoli e l’odore di urina e i nostri sguardi e anche le risate e la voglia di scherzare e sentirsi leggeri - Abbiamo dormito nella sua macchina ed era bello e piacevole e confortevole, abbiamo parcheggiato vicino al mare e sentivamo le onde arrivare e con esse ci siamo addormentati e abbiamo aspettato il nuovo giorno e tutto sembrava fluire senza problemi e la vita svaniva e noi lo sapevamo, perché gli amanti sono sempre destinati a separarsi, perché ci siano addii che abbiano il sapore di baci rubati e lacrime e di tutte le parole d’amore che non siamo mai riusciti a dirci.


giovedì 24 marzo 2022

...

"E' una maniera di attaccarsi alle cose. Per esempio quando stavo imparando l'erba del diavolo ero troppo avido. Mi attaccavo alle cose come un bambino alle caramelle. L'erba del diavolo è solo una strada fra un milione. Tutto è una sola strada fra un milione (un camino entra una cantidades de caminos). Quindi devi sempre tenere a mente che una strada è solo una strada; se senti che non dovresti seguirla, non devi restare con essa a nessuna condizione. Per raggiungere una chiarezza del genere devi condurre una vita disciplinata. Solo allora saprai che qualsiasi strada è solo una strada, e che non c'è nessun affronto, a se stessi o agli altri, nel lasciarla andare se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare. Ma il tuo desiderio di insistere sulla strada o di abbandonarla deve essere libero dalla paura e dall'ambizione. Ti avverto. Guarda ogni strada attentamente e deliberatamente. Mettila alla prova tutte le volte che lo ritieni necessario. Quindi poni a te stesso, a te stesso soltanto, una domanda. Questa è una domanda posta solo da un uomo molto vecchio. Il mio benefattore me la ha detta una volta quando ero giovane, e il mio sangue era troppo vigoroso perché la comprendessi. Ora la comprendo. Ti dirò cosa è: Questa strada ha un cuore? Tutte le strade sono uguali; non portano da nessuna parte. Sono strade che passano attraverso la boscaglia o che vanno nella boscaglia. Nella mia vita posso dire di aver percorso strade lunghe, molto lunghe, ma io non sono da nessuna parte. La domanda del mio benefattore ha adesso un significato. Questa strada ha un cuore? Se lo ha la strada è buona. Se non lo ha, non serve a niente. Entrambe le strade non portano da nessuna parte: ma una ha un cuore e l'altra no. Una porta a un viaggio lieto; finché la segui sei una sola cosa con essa. L'altra ti farà maledire la tua vita. Una ti rende forte; l'altra ti indebolisce."

Carlos Castaneda
The teachings of Don Juan

mercoledì 23 marzo 2022

freewheelin' #64

 La stazione degli autobus in Avenida America a Madrid era sottoterra, un labirinto di cuniculi ricoperti di cemento per giganti insetti con quattro ruote (o forse di più) che si muovevano nelle oscure memorie e nelle indecise speranze del sottosuolo (dove andare? Dove cercare la prossima connessione?) - C’erano tavolini bianchi al bar underground e luci alogene lungo i soffitti dei grandi corridoi per transitare e persone che camminavano con lo sguardo assente e cessi che non funzionavano e dialoghi che non riuscivo a trascrivere sul quaderno e cameriere con grembiuli rossi (che orrore, pensavo, lavorare in questa miniera del consumismo metropolitano, in un caffè, in un punto informazioni, tutto così disumano, c’erano prigioni ovunque, perdio, ci sarebbe stata una via di uscita da tutto questo?) - Direzioni invisibili che la gente seguiva. Perché? In attesa di cosa? Il prossimo amore, il prossimo impiego, la prossima scopata, la prossima inevitabile sconfitta? - Ovunque era sempre lo stesso, specialmente nelle città, tutto era omologato, impossibile da cambiare e difficile da graffiare, aggredire, sabotare, sovvertire. Qualcuno aveva deciso un ordine e quasi nessuno più si ricordava o sapeva chi era stato ma la maggioranza di noi si limitava ad accettarlo, a obbedire alle sue regole, a guardare in basso quando gli occhi ti chi ti scrutava ti stavano scandagliando l’anima, cosa era rimasto nella sua profondità? Cosa si nascondeva ormai nell’abisso del nostro abbandono?

Mi aspettavano altre cinque ore di viaggio fino a Bilbao e speravo che i paesaggi del mondo superiore, quando il nuovo pullman fosse ripartito, cambiassero in maniera drastica da quelli che mi avevano accompagnato da Granada a Madrid. Una totale assenza di fratture visive, di imprevisti estetici, il monotono modellarsi delle linee delle colline mi aveva sfiancato insieme alla ripetitiva presenza di solo tre colori: verde, giallo e un rosso scuro e sanguigno, quello della terra e delle sue ferite. L’azzurro del cielo era a parte. Poi sui fianchi dell’autostrada si susseguivano a ipnotiche e regolari distanze serie e serie di motel, con camion parcheggiati intorno a essi (probabili luoghi di incontro per scopate clandestine) e ancora partenze e ancora arrivi e ancora fughe e ancora separazioni. L’estate andava avanti, non mi ricordavo quando fosse iniziata e non sapevo se sarebbe mai terminata, il calore bianco mi aveva squagliato la memoria. Rumori metallici, un’ultima chiamata, era bello non avere nessuno che mi avesse salutato quando ero partito dal pueblo, ero stanco degli addii, dei saluti, delle promesse, ero stanco di questo mondo e porcaputtana pareva che oltre a esso non ne esistesse nessun altro. Ce lo saremmo inventati, compagni e compagne, in un attimo di eccitazione bolscevica da insurrezione anarchica e proletaria e lì non ci avrebbero più rotto i coglioni polizie, professori, agenti, guardie, controllori, politici, bigotti, banchieri e papponi. Metti un altro acido sotto la lingua, amore mio, quello che non hai saputo ancora immaginare te lo mostrerà il potere della tua creatività, perciò danza&distruggi, esulta, ci sono fiamme, adesso, intorno a noi, che hanno l’odore della notte e altre che gioiscono in esplosioni solo per te, scivola piano in questa dimensione senza futuro, le onde che senti arrivare sono gli echi di una giovinezza perduta o che deve ancora venire, nello specchio ci sei tu e l’altro, ogni giorno diverso, ogni giorno più osceno e meraviglioso. Accogli il domani come fosse un dono che giunge da uno sconosciuto, celebra il presente in ogni sconfitta che il tuo cuore trasforma nella dolce malinconia di un tramonto, in tutti i segreti che esso cela e protegge e paziente custodisce. Arriverà il giorno in cui non sarai più qui e altrove e ovunque e in nessun luogo. Sarai dento di me e ti aspetterò ancora. Ti aspetterò. Ancora.


lunedì 21 marzo 2022

freewheelin' #63

C’era un uomo che parlava in arabo seduto a un paio di poltrone dalla mia, sul pullman che mi stava portando verso Bilbao e non so perché la sua voce mi sembrava quella di un giapponese. Sterminate distese di ulivi lungo le colline che si muovevano fuori dal finestrino e parentesi gialle di terra brulla fra di esse e quasi quasi avrei dovuto prendere un acido prima di salire sul pullman e invece non l’avevo fatto. E a pensarci bene non mi ero nemmeno portato dietro nessuna pasticca di Valium o Alprazolam, magari da assumere con una birra per rendere più ovattato e amniotico questo viaggio di nove ore. Guardavo la camicia floreale che indossavo ed era ancora vivida nell’occhio della mente l’immagine del modo in cui le palme stampate sulla stoffa si muovessero danzando leggermente, quasi staccandosi dal tessuto (buon vecchio Hoffman che sostanza rara e potente hai scoperto). Ero contento di aver lasciato Orgiva e tutta la sua follia, il suo teatro perenne di assurdi personaggi. Avevo voglia di una cerveza e me la sarei presa alla prima stazione di rifornimento in cui ci fossimo fermati.

Provincia di Jaen, diretti verso Madrid. Un paesaggio montano, punteggiato da un’infinità di alberi di ulivo, una grammatica visiva di desolata e assoluta solitudine veniva dettata agli occhi di viaggiatori assenti, tranne i miei, curiosi e penetranti. Alcune delle persone che avevo intorno si erano addormentate, altre sembravano perdute negli spazi invisibili della loro memoria, zone ombreggiate da tristezze passeggere e anni fuggiti lontano. Qualcuno russava, qualcuno discuteva a bassa voce con il proprio riflesso, un cartello azzurro che era passato sul bordo della strada aveva suggerito un’uscita per Linares e ho pensato al Cile e se un giorno sarei mai tornato in quei luoghi insieme a Maria. Avrei viaggiato un’altra volta insieme a lei? Nessuno sapeva quello che sarebbe successo dopo il dissolversi di un pensiero e nessuno l’avrebbe mai saputo. Linee bianche sull’asfalto rovente, un altro veloce lessico di simboli e codici stradali in movimento passava sotto lo sguardo, sembrava non esserci fine allo scherzo dei giorni che si susseguivano e al gioco delle ombre sui muri, quando la sera arrivava e ci abbracciava con la sua malinconia. Vai avanti, perditi, raccogli conchiglie su una spiaggia di desolata e intima e tenera incertezza. L’uomo arabo continuava a parlare e chissà cosa cazzo ne pensavano i giapponesi di quello che stava dicendo. I ciliegi erano in fiore in un haiku ancora non scritto, la nebbia che velava la cima di una montagna nascosta. Le cronache radiofoniche di incidenti di isterico istrionismo. Le bombe atomiche nel cervello, gli aghi dei tossici a bucare le vene dell’universo. Strade perdute. La tristezza negli occhi di Tim nel vedere come tutto muoia e nulla in questa esistenza sia destinato a durare. Io e te compresi, amore mio. 


giovedì 17 marzo 2022

freewheelin' #62

 Enormi eliche immobili nello spazio desertico e psichedelico di un sogno, colori acidi di una mattina in cui porre fine a qualcosa che neanche ricordavi quando avevi iniziato, le ombre in movimento che seguono le curve sulle quali questo pullman sta danzando, i ragazzi afghani si erano nascosti chissà dove e c’erano piantagioni di papaveri da oppio in valli in cui era proibito entrare, nei fianchi gravidi di eroina di millenarie montagne silenziose. Ero in una stanza, durante la notte e poi nel suo doppio onirico e sapevo che dovevo partire e sapevo che dovevo svegliarmi, dentro e fuori, fuori e dentro da quell’altro mondo e c’erano strani ascensori, tram, cabine mobili che mi stavano trasportando da qualche parte e Lolo che mi guardava e sorrideva da una stanza da letto e Ara che era distesa ancora lì, fra le lenzuola, anche se non la potevo vedere. La avevo ascoltata suonare la chitarra, una volta, fuori dalla baracca di Lolo, sdraiato su un materasso lurido e lei cantava con gli occhi chiusi e la sua voce aveva toccato qualcosa dentro di me anche se la sua anima ancora mancava di profondità e sofferenza e tristezza, ci avrebbe pensato la vita, poi, a insegnarle come accompagnare il dolore, lo faceva con tutti noi, in un modo o in un altro. C’era un lago in una valle che l’immaginazione creava e alberi sulle sue sponde e case bianche e diroccate e sapevo bene che me ne sarei andato anche da questa ennesima illusione, volevo dimenticare volti e persone e volevo dimenticare me stesso e quello che ero stato in questi luoghi di pura astrazione cosmica, che svanissero gli incontri e gli addii e le speranze del domani. Quello che mi aspettava era un’altra bancarotta emotiva e questa volta non sarei caduto nella trappola dei tentativi falliti e avrei lasciato i frammenti della mie più intime ferite dovunque fossero caduti. Le spie e le aguzzine con i tacchi alti del subconscio mi avrebbero cercato ancora, così come le tentatrici dai piedi nudi che si divertivano con le mie debolezze, maledette curve, è quasi impossibile scrivere in questo modo, sul sedile traballante di questo pullman, in questo viaggio verso Bilbao, i passeggeri intorno sono silenziosi, mete metropolitane, destini obliati, Granada appare com un miraggio di edifici nel calore bianco e vibrante del vuoto buddhista andaluso, nuove fermate, nuove stazioni mi avrebbero atteso, orde di graffiti in fuga figurativa, una pausa in questo costante rollio grafico, un rettilineo, la mano torna ferma in questa fuga di finzioni fugaci, enormi eliche immobili, sedili vuoti e fuori dal finestrino scorre un mondo millenario di forme e colori, caldo e asciutto, irraggiungibile e misterioso al di là del mio riflesso smarrito. 

martedì 15 marzo 2022

Orgiva #76

 I volti di alcune persone erano la testimonianza di quanto fosse orribile la nostra specie, c’erano tratti di demenza in quelle facce, di una stupidità visibile e fastidiosa e veniva da chiedersi perché la gente si riproducesse, perché non si decidesse all’unanimità di scomparire da questo pianeta e di farla finita con la razza umana una volta per tutte.

E i miserabili nei vicoli del pueblo sembravano essere afflitti dagli stessi problemi di chi apparentemente miserabile non era, cioè quelli che avevano un lavoro, una casa, forse dei progetti, qualcosa da realizzare, però sentivo uscire delle loro bocche le stesse lamentele, le stesse incomprensioni. C’era una guerra aperta fra di loro per i posti migliori nei quali mendicare, accompagnata da una politica di infima insoddisfazione personale, di mediocre e meschina competitività. I poveri stronzi non si aiutavano a vicenda come ci si sarebbe aspettato che facessero, vista la condizione in cui erano, non c’era nessuna solidarietà che la strada gli avesse insegnato, seguivano ancora gli stessi schemi mentali della società dalla quale erano stati ripudiati o dalla quale si erano voluti escludere da soli, non che avesse poi molta importanza. Lo scrittore li osservava e poi si era stancato di guardarli e aveva promesso a qualcuno che non avrebbe più scritto di sesso, delle sue fantasie erotiche e delle sue perversioni e che fissandosi in uno specchio si sarebbe girato dall’altra parte, perché era più semplice cercare risposte al di là del proprio mutevole riflesso che dentro se stessi.

Era ferragosto e la cosa migliore da fare mi sembrava quella di passare le ore in piscina a bere birra e rimanere in silenzio e aspettare così l’arrivo della sera, quando la morsa del caldo diveniva meno soffocante. Quello era il momento migliore per il vino e per mettersi a scrivere e per farsi sedurre da tutte le parole che la notte sussurra prima che i sogni ti rapiscano per ricordarti chi sei e chi non sei stato mai. Fuggirai ancora, ragazzo mio, ti cercherò, sarò la tua ombra, vattene lontano, ti troverò ancora, sarò il tuo demone solitario, il tuo amante, lo sai, lo hai sempre saputo, ci conosciamo da così tanto tempo, abbiamo gli stessi occhi, la stesse pelle, lo stesso cuore, lo stesso cazzo, galleggiamo nel tempo, corriamo nel vuoto, esistiamo in un mondo e in tutti quelli che abbiamo immaginato e oltre ad essi in ogni poesia che ci siamo dedicati, che abbiamo scritto e bruciato, per cui abbiamo pianto, lottato e amato.

lunedì 14 marzo 2022

Orgiva #75

 E anche John era morto, probabilmente da solo, mi aveva messo tristezza la notizia, anche se non lo conoscevo molto bene. Me lo ricordavo una volta al Metal Bar (Mental Bar, come lo chiamava Vanessa), ubriaco, che parlava senza che si capisse una sola parola di quello che stava dicendo e poi un’altra volta vestito da skinhead al bar di Tablones, anche se a me faceva pensare ad una grottesca e buffa versione punk di Mickey Mouse. 

Faceva caldo nell’appartamento di Sara e così vagavo nudo per le stanze, un paio di volte con la testa imbottita di acido ed era incredibile vedere le venature del legno muoversi e ondeggiare e le linee dei disegni sul quaderno di Sara animarsi e intrecciarsi fra di loro e quando le sfioravo mi sembrava di toccare la sua pelle e poi avevo gli occhi pieni di lacrime e un senso di pena per me e per lei e per qualcosa che sapevo bene stava per finire, tanto valeva non opporsi, lasciare andare tutto quello che un’altra volta non avevo voluto possedere e fare mio. 

I disegni geometrici del tappeto sembravano staccarsi e pulsare leggermente e nella penombra il soffitto si riempiva di composizioni astratte come fossero gentili spirali di fumo e i colori di un quadro prendevano vita e germogliavano in fluorescenze mobili e vibranti e dentro di me c’era ancora questa malinconia, questa tristezza così profonda, intima, familiare. 

Altri giorni me ne rimanevo a bere, a scrivere, evitando i contatti umani e la gabbia delle loro incomprensioni e c’erano sempre le montagne intorno, le vedevo all’alba e al tramonto dalla terrazza, quando la luce era di una sublime tenerezza e mi chiedevo dove andasse poi a finire la grazia e la quiete di quegli istanti. 

Le lancette dell’orologio del campanile giravano, a volte più veloci, altre rallentando fino alla stasi perenne dell’eternità, ascoltavo i rintocchi metallici della campana e quelli argentei del tempo e non sapevo più chi fossi fra queste mura e soppesavo così i pensieri che arrivavano nella mente come onde, nuvole d’aria, ipotizzando la difficoltà di tentare a rientrare dalla porta posteriore di una società che mi dava ribrezzo e nausea. 

Avrei dovuto lasciare quella porta chiusa in maniera definitiva e andare avanti nella direzione opposta, seguendo le vie che non portavano da nessuna parte, i sentieri misteriosi, continuando così a vagare senza meta, senza aspettative. 

Mi sarei nascosto in un  nuovo luogo di pura fantasia? C’era un’ansia di vivere che non sentivo più nei miei respiri e una tranquillità così vicina che apparteneva a quegli spazi che possono esprimere la bellezza dell’esistenza solo attraverso il silenzio. In una maniera dolce e impercettibile stavamo tutti morendo ed era da quando eravamo nati che lo stavamo facendo.


sabato 12 marzo 2022

Orgiva #74

 E in alcuni giorni questo pueblo era il più miserabile di tutta l’Alpujarra e mi faceva sentire così, un poveraccio, con tutti i suoi tossici, scoppiati, accattoni ed emarginati, con i suoi mendicanti, i suoi spacciatori e i suoi approfittatori, che più ti sorridevano e più te lo avrebbero messo nel culo senza troppi problemi appena ti fossi girato. Questo ritrovo di derelitti, sognatori falliti e mediocri visionari.  E c’erano siringhe per terra e volti deformi lungo i muri e poi i rintocchi della campana a battere il tempo della nostra caduta e tutte le ore passate fra i vicoli e fra lenzuola sudate, i giorni in cui ho vagato o mi sono rifugiato nella mia testa a cancellare le voci di chi mi infastidiva, voci che ancora mi dicevano cosa fare, chi essere, come comportarmi - Ne avevo le palle piene di tutto questo, ero venuto qui per nascondermi, per scrivere, per dimenticare e niente, le persone ancora mi rompevano i coglioni, volevo starmene nell’ombra, osservare, meditare, leggere libri, starmene tranquillo, ad attendere, a immaginare, a oziare, lasciando che le giornate svanissero così come erano venute e veramente non avevo più voglia di quello che avevo e avevo avuto intorno per gran parte della mia esistenza, non avevo più voglia di rapporti superficiali, di responsabilità che non mi spettavano, del gioco delle parti, delle chiacchiere inutili, non avevo voglia di lavorare, di capire, di soddisfare, di riparare, di progettare.

Poi guardavo il fianco della montagna al tramonto e lo vedevo respirare e muoversi in composizioni astratte di colori pulsanti e l’occhio lunare, di notte, mi osservava divertito mentre camminavo completamente nudo sulla terrazza. Le mattine erano di nuovo luce e respiri, la quiete e la pace interiore. Poi uscivo e  per le vie cominciava il solito teatro quotidiano, un misto di improvvisazione e repliche, atti unici e drammi, satire e commedie e io cercavo di rendermi invisibile, le volte in cui mi pesava parlare, ascoltare, addirittura incrociare lo sguardo con qualcuno che conoscessi, allora mi sedevo da qualche parte isolata e mi osservavo le mani, le mie fragili dita di cartapesta, che un giorno si sarebbero spezzate nell’angoscia di resistere alle cose. E poi ogni fuga che ho mascherato di speranza, come una splendida poesia per l’ultima aurora in cui fossi vissuto. Non avevo coraggio, non ne avevo mai avuto, eppure non mi sono mai tirato indietro davanti a questo osceno spettacolo che mi ha accolto da quando sono nato. Dimentichiamo il presente anche se è tutto quello che abbiamo, tutto quello che possediamo e poi ridiamo, si, una risata e un’altra e un’altra ancora, un’ebbrezza etilica splendente fra le estasi di una danza dionisiaca e poi il momento in cui ogni cosa non sarà più la stessa e nei ricordi di questo mondo non ci saranno più rancori e del tuo nome nemmeno un’eco e te ne andrai e nessuno ti seguirà e le campane suoneranno per la tua vita sprecata e per quell’attimo di meraviglioso silenzio per il quale hai rifiutato di voltarti indietro e di andare avanti, ora, adesso e in nessun momento.


venerdì 11 marzo 2022

dream #105

 C’era un gruppo di donne nella casa dei miei nonni ad Aphex, nella cucina e stavano organizzando non so cosa e fuori, nel giardino, avevo visto arrivare un uomo vestito di stracci, mentre ero nella mia camera al piano superiore e lo osservavo dall’alto, dalla finestra e così sono sceso e gli ho chiesto chi fosse e lui si è sdraiato fra i due grandi pini e proprio lì vicino c’era una roulotte che non avevo mai notato prima e l’uomo mi ha detto di essere un amico di una delle donne che si erano riunite nella cucina e poi ha aggiunto di essere uno spacciatore di marijuana e poi ero di nuovo nella mia stanza e nel cassetto di un comodino ho trovato una vecchia foto, poi c’era mia nonna e ci stavamo guardando in silenzio, senza parlare, l’immagine dei suoi occhi era così nitida, poi mi è venuto da piangere e sono sceso un’altra volta e in un cucina c’era una delle donne che mi fissava e non aveva un’aria amichevole e allora ho capito che non erano lei e gli altri gli intrusi ma l’estraneo ero io, perché la casa era stata venduta e non avevo più nessun diritto di stare lì dentro, anche se non sapevo come ci ero arrivato e soprattutto perché mi trovassi in quel luogo e così ho deciso di andarmene e fuori, nel paese, c’era una specie di festa, una sorta di grottesco carnevale e le persone indossavano strane maschere e bizzarri costumi, ho cercato la mia macchina ed era parcheggiata fra altre due ed erano così attaccate alla mia che era impossibile uscire, l’ho aperta e mi sono subito reso conto che qualcuno ci era entrato dentro e aveva rubato delle cose, mancava anche una parte del volante, mi sono messo a sedere e ho messo in moto e poi stavo guidando su una autostrada e parlavo non so come con mia madre e lei mi stava dicendo qualcosa a proposito di una somma di denaro, non sapevo dove stessi andando e in fondo non  l’avevo mai saputo.

mercoledì 9 marzo 2022

Senza titolo

 C’era una deriva che mi sembrava appartenesse a tutti quanti, insieme alle promesse perdute della giovinezza e a una consapevolezza ancora difficile da raggiungere, che sarebbe dovuta essere la nostra maturità o forse solo un altro modo per invecchiare. Osservavo questo continuo e lento disperdersi delle energie, giorno dopo giorno e anche la sottile meraviglia di essere vivo, in un corpo e poi ovunque, al di fuori di esso e poi c’era la stanchezza causata da ogni incomprensione, da ogni discorso che non mi avrebbe portato da nessuna parte. C’erano ruote di pensieri che spingevamo in avanti solo per tornare indietro, schiavi inconsapevoli del nostro stesso tormento, piramidi distrutte e imperi della mente svaniti nel tempo e ombre sul palcoscenico e attori in preda a crisi epilettiche e decrepiti sciamani i cui canti invocavano visioni ormai senza più potere. Non c’erano più terre sconosciute e cieli misteriosi ad ammantare di pericolo la nostra immaginazione e non ci risarebbero stati più viaggi, né esplorazioni a portarci dall’altra parte di questa stantia ripetizione di gesti inutili, nocivi, insulsi, di questo dramma scadente buono per un’ora e mandato avanti per secoli, era la noia a dirci cosa fare e la mancanza di fantasia a rinchiuderci nella nostra stessa gabbia di percezioni svanite. Mi chiedevo quale fosse il nome della montagna sulla quale avrei voluto nascondermi e quale fosse il nome dell’abisso nel quale nessuno mi avrebbe più trovato e stranamente questo nome era il mio. Le vecchie e familiari paure erano diventate rare e inconsistenti e quasi ne sentivo la mancanza, di queste ossessioni che ci costringono a essere chi non siamo. Il mio sguardo era triste o forse era solo il riflesso di tutto quello che non avevo capito e continuavo a non capire di questa vita e c’erano luoghi e persone che avrei lasciato di nuovo, solo per non sapere più niente di loro e c’era un cammino solitario che mi aspettava per portarmi verso un altro esilio, un’altra casa che esisteva solo dentro di me, quando chiudevo gli occhi e ogni cosa diveniva, finalmente, reale.

martedì 8 marzo 2022

Cigarrones #25

 Avevamo organizzato una cena anarcosindacalista, io e Lolo, ed era più un’occasione per stare insieme e cucinare e bere birra e vino e parlare e scherzare che un vero e proprio happening politico. Compravamo la verdura da Emma e poi andavamo nella baracca di Lolo a cucinarla, su un fornelletto rimediato chissà dove, tutto lì dentro era sporco e in disordine e meraviglioso, stappavo una bottiglia di rosso e poi iniziavo a tagliare le zucchine, le cipolle, le carote, l’aglio e ogni foglia commestibile che trovavo nel suo giardino. Quella sera ci sarebbero state anche le prove de Los Bayakaneros, il gruppo di Tim, Shane, Paul e Nick. Mi piaceva rimanere ad ascoltarli, quando ero da quelle parti e loro suonavano, seduto o sdraiato dove capitava. Nick con il suo whisky e succo di limone, Tim con il suo litro e Paul e Shane con le loro lattine. Le canne, poi, non si contavano. Di solito suonavano nel magic bus e questa volta Nick mi aveva chiesto di riprendere le prove, così ero salito su anche io quando avevano cominciato a darsi da fare con gli strumenti, mi ero sistemato in un angolo in cui mi sembrava di avere una buona visuale di tutti e quattro e avevo acceso la videocamera, Nick aveva sistemato alla meglio l’illuminazione di un paio di lampade e così tutto era pronto. Avevo la bottiglia di rosso vicino, da cui davo lunghe sorsate, ero già abbastanza ubriaco e poi la magia è successa e ho iniziato a perdermi nella loro musica, ad essere quasi una cosa sola con i suoni e filmavo e semplicemente mi lasciavo andare seguendo  lo scorrere delle canzoni ed era tutto così naturale e fluido, mentre inquadravo prima uno e poi l’altro, avvicinandomi e allontanandomi dagli strumenti, mi sentivo come in un’estasi di percezioni che sembrava perfetta nella sua semplicità, non avevo idea di quello che stessi facendo, era pura improvvisazione registica, pura creazione artistica all’interno delle loro melodie.

Dopo le prove me ne sono andato a dormire su un materasso fuori della baracca di Lolo, c’era silenzio e c’erano le stelle luminose nel cielo, c’erano i cactus di San Pedro con la loro presenza a proteggermi, mi sono addormentato quasi subito, ancora un pò sbronzo, senza grandi progetti, senza grandi pensieri, volevo solo dissolvermi in questo momento di quiete, non essere più io, per alcuni questa era una liberazione, per altri una fuga senza fine.

venerdì 4 marzo 2022

Orgiva #73

Non sapevo che cosa facesse la gente che si trovava in questo luogo, come non sapevo che cosa ci facessi io, mi limitavo a osservare quello che avevo intorno e la vita in sé stessa, nel suo fluire, senza troppe distrazioni, quando era possibile. Avevo passato un anno in un’appartamento, intrecciando il mio dolore e la mia gioia con quelli di Sara e come sempre si era finito per creare quel groviglio di emozioni dal quale era poi difficile liberarsi, fiorivano rose e crescevano spine, poi lei era andata ad abitare da un’altra parte e anche io volevo andarmene via da lì. Dove? A fare che cosa? Ripeteva una voce nella mia testa e non c’erano risposte ma solo i frammenti di un romanzo incompiuto che lo scrittore continuava a trascrivere su un quaderno. Mi sembrava che i problemi scomparissero ogni volta che mi concentravo sul momento presente, era come un respiro che diventava sempre più ampio e profondo e si espandeva e allargava in uno spiraglio di eternità e così non c’erano più appigli alle illusioni che ci avevano insegnato, non c’erano più parvenze o pallidi riflessi di legami familiari, lavori, aspettative, progetti, incomprensioni, litigi, supposizioni - Me ne andavo in piscina, a leggere e a smarrirmi nelle visioni della luce e delle rifrazioni dell’acqua, tutto era liquido e in movimento, bevevo qualche birra, scrivevo durante la mattina, c’erano volti assenti intorno a me e altri che si ripetevano senza che me ne accorgessi, non c’era pace negli occhi di alcuni, non sapevo come fossero i miei, erano settimane che non mi guardavo in uno specchio. Mi sentivo appagato, a volte, per nessun motivo in particolare e gli antichi maestri dicevano che questa felicità era autentica perché non dipendeva da nulla. Mi piaceva oziare, aspettare, non fare niente di tutto ciò che agli altri pareva così interessante, ero lento, seguivo il mio ritmo e solo così mi sembrava di non perdere tempo appresso alla frenesia altrui. Le radici del presente avrebbero potuto germogliare in splendidi fiori se solo avessimo capito come non reciderli con la nostra ansia di pensare al domani. Amavo la mia libertà, quella di essere solo, il mio distacco, c’erano centinaia di possibilità per fuggire di nuovo, per vagare senza meta in una moltitudine di fallimenti senza nome, una città mi aspettava ancora, chi sarei stato fra le sue strade, in un futuro che non era mai esistito?



mercoledì 2 marzo 2022

freewheelin' #61

 Vecchi attori fuggiti via dai palchi scricchiolanti delle proprie esistenze, rifugiati in cortijo nascosti, la scatola blu delle sostanze e il giardino delle piante medicinali, la casa della luce non era altro che un travestimento per i giochi dell’oscurità, sadismo e masochismo, gli antichi desideri, le primitive immagini di falli disegnate sulle pareti di roccia di caverne invisibili, calore bianco sulla pelle (e dentro le vene, ghignava il vecchio Lee), le bocche sdentate dei tossici che mi sorridevano, gli abbracci etilici di Paul, i progetti che non si sarebbero mai realizzati e i film della mente proiettati in loop concentrici e c’era qualcuno che mi parlava in tedesco e avremmo tutti potuto essere parte di questo scherzo infinito (nessuno si senta escluso) e negozi chiusi, serrande abbassate, i riflessi psichedelici sull’acqua di una piscina e un uomo che sembrava lo scrittore che si sedeva contro un muro, dimenticando il suo nome, la sua storia, come aveva visto fare a tanti esuli prima di lui, testimone caduco delle disgrazie di uomini che gli si avvicinavano striscianti con i loro volti segnati, mutevoli, stanchi, in fuga dalle proprie espressioni, trasfigurati in maschere tragiche e che cosa era rimasto fra le pagine di ogni minuto che avevamo trascorso insieme? Cosa era rimasto della Costante Caduta? Titoli provvisori al bordo di un manoscritto e sceneggiature macchiate di rossetto e le dolci vibrazioni nel basso ventre e una musica e una voce e poi solo il silenzio delle dune e le sedie vuote intorno a un tavolino di plastica bruciata, camere abbandonate, illusioni sudice di sudore, una febbre di infelici felicità fuggenti, i ricordi ti tutto ciò che abbiamo smarrito, gli amori svaniti, i tagli sul cuore, i tagli sul cuore, i tagli sul cuore.

martedì 1 marzo 2022

La bruttina stagionata (2004)

Non c'è proprio nulla da dire. L'università è il miglior luogo del mondo. Per quanto riguarda l’ispirazione, intendo. Anche se vai là che dici oggi non me ne frega un cazzo, oggi me ne sto tranquillo e non mi lascio scazzare, è tutto inutile. Comunque sia una cosa che non va o che ti fa girare le palle la trovi sempre. Semplice semplice. Sembra fatto apposta così. E forse lo è.

Arrivo verso le nove e mezzo a via De Lollis e dopo un po’ che giro per trovare posto, finalmente parcheggio al Verano e scendo. Chiudo la macchina e vado verso il mio dipartimento. Spettacolo. Sapete io studio cinema e ho preso la laurea triennale. Adesso mi aspetta il biennio di specializzazione. Hanno messo sto cazzo di nome per poi farti studiare le stesse cose dei tre anni precedenti. Il bello è che tu studi e studi e non fai un cazzo di pratico. Cioè non puoi, per dire, andare a Cinecittà a vedere come si fa un film. Cioè, io che studio cinema non posso entrare a Cinecittà. Come uno che studia medicina e non lo fanno entrare all'ospedale. Semplice semplice. Non so neanche come è fatta una macchina da presa, perché, in verità, non ne ho mai vista una. Figuriamoci un set. O una sala di montaggio.

Insomma, mi devo segnare ad un esame, quello di legislazione dello spettacolo. Vado al gabbiotto del dipartimento e chiedo al tipo che ci sta dentro (e che sta leggendo un  libro) se può mettere il mio nome nella lista. Il ragazzo interrompe le sue letture mattutine, cerca la lista ma evidentemente ancora non l'hanno fatta. E già. Oggi è il 15 e il 20 c'è l'esame. Ma quando cazzo mi devo segnare? Il tipo del gabbiotto non sembra preoccupato per nulla, fa una telefonata e mi dice di aspettare un pò e a me già iniziano a fumare i coglioni, anche perché devo andare a seguire un seminario sul cinema italiano che inizierà tra poco in facoltà. Mi faccio un giretto per il dipartimento guardando metodicamente le bacheche in cui metodicamente non si capisce una ceppa. A momenti ci stanno affissi i fogli con i testi degli esami di cinque anni prima. Mi soffermo su quelle che dovrebbero interessarmi, ma sono uguali da mesi. Magari ad aggiornarle un attimo... ma che ti credi bello mio che stanno tutti ai tuoi comodi? I professori hanno ben altro a cui pensare.

Ritorno verso il gabbiotto e il ragazzo mi sorride e mi dice che ancora non se ne sa nulla del foglio. Cazzo ridi, gli vorrei dire e invece sempre gentilmente gli chiedo se si può segnare il mio nome e lui mi dice che è inutile, perché serve il foglio del docente. Allora gli dico che ritornerò domani, un pò più cattivo ma lui non sembra impressionato per nulla dal mio fare e così si rituffa nel libro che stava leggendo.

Esco dal dipartimento e mi dirigo verso la facoltà di lettere dove nell'aula cinque dovrò seguire questo seminario sul cinema italiano, che porterà un credito nelle tasche del fortunato sottoscritto. Nel foglio che presenta il seminario e che una ragazza sta distribuendo fuori dell’aula c'è scritto che incontreremo registi e sceneggiatori del nuovo cinema italiano. Fantastico, penso. E poi bisogna fare in fretta, perché il seminario è aperto solo alle prime cento persone che si segneranno. Per gli altri? Cazzi loro. Mica l' università si può accollare tutti quelli che vogliono studiarci. 

Entro nell'aula cinque e mi metto seduto, sono le dieci e mezza e il seminario doveva iniziare alle dieci. Si e non ci staranno una ventina di persone. Io come al solito mi sistemo all'ultimo banco. Poi mi alzo e prendo delle fotocopie, pure fatte male, dalla cattedra, che illustrano il film che dovremo vedere oggi e me ne ritorno al mio posto. Calderòn, che intanto era apparso dal nulla, fa una piccola presentazione. Il film è La bruttina stagionata, anno di grazia 1996. Oggi è il 15 aprile dell’anno del Signore 2004 e questo è il nuovo cinema italiano. Domineiddio!

Dopo un'altra decina di minuti (causa problemi tecnici) mettono su sto cazzo di film. Mi accorgo che su un lato dello schermo sul quale lo proiettano c’è una macchia di colore giallognolo di cui non voglio sapere la provenienza. Ancora prima che la storia inizi già qualcosa mi pone in uno stato di nervosismo, ovvero la seguente frase che precede i titoli di apertura: "Questo film è stato sovvenzionato dallo Stato in quanto ritenuto di interesse culturale nazionale”.

Durante il film comincio a sentirmi sempre più inquieto, rumino e rumino sui soldi sprecati dello Stato, mi prudono le mani, mi sento insofferente, vorrei alzarmi, dire qualcosa, me ne sto seduto, resisto. Mi agito di nuovo, cerco con gli occhi una via di fuga. C’è Calderòn seduto in prima fila, vedo la sua sagoma da melanzana da dietro, sembra mezzo appisolato, meglio guardare il film cazzo. Poi ‘sta tortura finisce e ci dovrebbe essere l’atteso incontro con la regista, comincio  a sentire un formicolio nel basso ventre, indice di fastidio e indignazione, che vorrebbe trasformarsi in parole, che la mia timidezza, come sempre, blocca in gola. Aumenta così la tachicardia perché voglio parlare e mi mette paura farlo in pubblico e allo stesso tempo sento la salivazione sublinguale che si azzera. La velocità dei pensieri si impenna insieme all’ansia di esprimermi davanti ad altra gente. Ripenso pure all’esame di legislazione a cui non mi sono potuto segnare e che tra quello e sta pagliacciata di film anche oggi all’università non ho concluso niente. Alla fine, mi faccio coraggio e alzo la mano per fare la mia domanda. 

Chiedo alla regista quali siano, secondo lei, i motivi per cui il suo film è stato sovvenzionato dalla Stato e ritenuto di interesse culturale nazionale.

Nell’aula si crea una gelida tensione. Se avessi potuto le sarei saltato alla gola a lei, la regista e a Calderòn, soprattutto, che lo vedo al suo fianco, sornione e soddisfatto (immagino per la lauta pennica durante la proiezione). La regista sta per rispondere, io sono tutto nervi scoperti e sudore sulle mani, quando Calderòn la interrompe e sorridendo dice - “Bene ragassi, grassie per essere venuti, ci vediamo la settimana prossima, con il nuovo cinema italiano, il tempo è finito e dobbiamo lasciare l’aula per la prossima lessione”. Rimango seduto, cercando di controllare il respiro ma i tempi dell’hatha yoga erano ancora lontani. Quasi tutti escono, poi me ne vado pure io, straccio il foglio del seminario e lo butto in un cestino. Il trip continua.


freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...