martedì 27 giugno 2017

Spine (2006)


Non era più possibile fare niente.
Mani e piedi legati, segni viola sulla schiena, occhi chiusi.
Perso in un buio carico di promesse, spine senza rose, lame senza manico.
L’amore era uno spasmo del viso, era la violenza con cui mi picchiavi, era il dolore che sapevi farmi provare.
La luna era rossa, grondante sangue.
Le nuvole erano vele nere.
Non era più possibile fare niente.
Allontanarmi da tutto questo era impossibile, accendevo candele, dimostravo a me stesso quanto ne avessi bisogno.
Spine.
Spine.
Spine.
Corone di spine.
Segni viola sul collo. Soffocamento. Lasciarsi calpestare. Maschere.
Spine.
Ogni specchio dava un’immagine diversa di me. Nudo. Prostrato. Succube. Incolume. Fradicio.
Piangevo.
Dimostravo quanto valessi.
Nulla.
Nulla che potessi perdere.
I rasoi correvano veloci sulle mie braccia.
Attenti a non curvare, a non sbandare.
Un freddo contatto.
Il dolore.
Il dolore è quanto di più personale possediamo.
Più scintillante del sole.
Più profondo dell’abisso.
Più dolce di qualsiasi carezza.
Lasciami andare. Intrappolato nei tuoi occhi.
Nessuna voce può salvarmi, niente a cui aggrapparsi.
Lenta caduta.
Lenta e inesorabile caduta.
Il dolore.
Le spine.
Avrei voluto perdermi, scivolarti sotto le unghie, colarti dalle gengive, rifugiarmi in colpi secchi e sordi.
Nulla di tutto questo è vero.
Nulla di tutto questo spinge come il tuo odio quando cerchi di ferirmi.
L’amore è il dolore più acuto che possa sentire.
La pena del cuore.
La memoria sono orologi che si sciolgono dall’albero dell’impiccato.
Il futuro sono i miei polmoni senza aria.
Appeso ad affogare.
La luna sorvola la mia testa che ciondola.
Squarci.
Tagli.
Impressioni.
Nulla di tutto questo è vero.
Solo una goccia di sangue ad impedirmi di morire.
Solo l’ultima goccia di sperma chiusa in un pugno.
Venire.
Lasciarsi andare.
Le spine che ho sul cuore hanno smesso di ferirmi.
Un’altra rosa che non coglierò mai più.
Quella che dalle tue mani silenziose
cade ormai verso il vuoto.


domenica 25 giugno 2017

Nant y Garreg #1



Il gatto è sdraiato sul divano, gli occhi socchiusi e la luce che entra dalle finestre è così bassa da proiettare le ombre dei vasi su una parete. I colori di un tramonto che si sciolgono sui muri. Ci sono altre stanze e altre vite e figli e storie da raccontare, quelle da scoprire, quelle da inventare e le scopate durante la notte o la mattina presto, le pasticche blu, divise e inghiottite sotto un’avvolgente coperta di piacere e i brividi delicati che attraversavano un’intera generazione abbracciata da un amore chimico. Rimanevano volti e sguardi e sensazioni, suoni e immagini che si potevano cogliere, i residui psichedelici che ancora emanavano le alterazioni visive. Il letto con le coperte e i cuscini indiani e la musica degli Underworld, fare un passo indietro, camminare verso il passato e ricostruirlo nella propria mente, ancora una camera in cui trascorrere le mattinate, le parole da scrivere, quelle da leggere, quelle da cambiare, l’odore dell’incenso e le sequenze oniriche da rimontare dopo il risveglio, passaggi improvvisi e varchi da attraversare, il calore di un corpo, il flusso interiore che scorre nel silenzio dei pensieri. Ti fermi a guardare cosa sei stato, chi hai creduto di essere, gli ultimi discorsi alcolici prima di stendersi sul proprio inconscio, lei sdraiata al tuo fianco, sembrava così semplice adesso lasciarsi andare, lo sapevano il tuo cuore e anche il tuo cazzo, i battiti e lo sperma e la luna che ammirava maliziosa i segreti degli amanti.

mercoledì 21 giugno 2017

Nannerth Ganol #3



Bianchi risvegli di luce e neve, lei che ti stringe sotto il piumone, il suo corpo caldo, la pelle come una scoperta e i baci come espressioni di gioia dimenticate. Quanto tempo hai lasciato andare per le strade del mondo per arrivare fino a qui? Solo perché gli sguardi avessero nuovi significati, perché quel blu così profondo e lucente non fosse solo il mare che avevi attraversato ma anche il riflesso dei suoi occhi. Gli abbracci e le scopate, donavi orgasmi come dichiarazioni dei tuoi sentimenti, la sua bocca che si chiude sul tuo cazzo nel buio della stanza, le luci della macchina che tagliavano la notte mentre la attendevi e la pioggia sospirava, le strisce di emmedi amare e dolorose nelle narici, mezza pasticca blu che scivola nella gola e una sorsata di birra, i corpi che ondeggiano insieme ai flash colorati e alla musica, il sudore e i leggeri movimenti del corpo. I montaggi incrociati di sogni e visioni, le mani sui fianchi come carezze inaspettate, torniamo in una casa solo per perderci ancora tra le lenzuola, l’alba che filtra tra le persiane di legno, i tuoi occhi che si dischiudono come fiori, possa l’amore ancora nascere in questi silenzi di meraviglia.

lunedì 19 giugno 2017

Nannerth Ganol #2




C’erano amici per strada e in macchina, da qualche parte, perduti in un sogno e le antiche paure come pensieri e dialoghi che prendevano forma nella sala buia del teatro mentale e qualcuno che sussurrava silenzio mentre gli alberi e il cielo e le nuvole, intorno, erano manifestazioni concrete di una quiete assoluta. Le passeggiate lungo i fianchi erbosi di una collina per arrivare sulla sua cima e guardare le altre vallate e il respiro del fianco di una montagna, allargarsi e restringersi in una nuova prospettiva ed ennesime stanze e letti e momenti di tristezza come se non fosse bastata la mia adolescenza a farmi fissare i soffitti in attesa che qualcosa accadesse. Ci ritrovavamo in ruoli diversi, nelle maschere inventate di esistenze immaginarie, recitavamo su quei palcoscenici che cambiavano di giorno in giorno e c’era ancora sofferenza, nel cuore, quando le parti non coincidevano ed era impossibile ricostruire un’unità di tempo, spazio e luogo. Erano sempre e comunque i frammenti e le schegge a ferirci, le parole non dette e quelle espresse nel tono sbagliato, le prove erano fallite e con esse la loro protezione di gesti e posizioni ripetuti all’infinito. Rimaneva solo l’improvvisazione, attimo dopo attimo, un istante e quello successivo, fino a quando tutto non fosse diventato così fluido da sembrare vero, solo allora saremmo stati in grado di credere a questa finzione e di mostrarla agli altri. Ci sarebbero stati applausi e fischi, i battiti osceni del cuore prima che le luci si spegnessero e il tuo corpo che avevo abbracciato per sconfiggere l’ansia e il timore di fallire. Ci voleva coraggio ad andare avanti, ce ne voleva tanto, ci avrebbero pensato gli anni a scavarti il viso e la fatica e l’angoscia a renderti più umano. Una voce nella testa, la tua voce, per essere fiero di quello che eri sempre stato, avevi scagliato sassi e macigni contro le ingiustizie di questa terra, perché le sentivi bruciare dentro di te, non si poteva rimanere muti in eterno, era una lotta che nessuno aveva il diritto di abbandonare. La pace che cercavi era rinchiusa in un semplice respiro, la gioia di lasciare aperta quella porta, perché gli altri vedessero quanto luminosa fosse la tua purezza.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...