martedì 27 marzo 2012

Cieli d'ebano



Erano tre anni che facevo l’insegnante e questo significava che avevo dovuto imparare le regole del lavoro, quella gabbia fatta di orari e soldi e piccole meschine ipocrisie che controllava la vita di quasi tutti noi. Non il lavoro in sé stesso, ma quello che c’era intorno. Ma nel momento in cui la gabbia per qualche giorno si apriva era incredibile come tutto tornasse come prima, la mente si svuotava, il corpo si rilassava, quei tre anni venivano immediatamente cancellati. Tornavo ai giorni del silenzio e del sonno, della luce che cambiava in maniera lenta attraverso le tendine arancioni della mia stanza ed era così dolce il mio respiro e con l’arrivo della notte c’erano solo le stelle e la luna a dirmi, sei cresciuto, non hai più paura delle attese e delle false promesse e infatti non avevo più bisogno di sentire amici o amanti, uomini o donne, ero al sicuro con me stesso e anche se qualcuno aveva detto che la felicità era reale solo se condivisa era anche vero che nella solitudine esisteva un forma di armonia e meraviglia che riempiva il mio essere.

Il tempo si dilatava lontano dall’ufficio, dalla classe, dalle lezioni e per quanto volessi molto bene ai miei alunni sentivo che tutto questo non sarebbe potuto durare ancora molto a lungo.

C’erano le foreste del Perù dove vecchi sciamani ancora facevano bollire radici e foglie e preparavano antiche pozioni magiche, le scimmie blu che scendevano dagli alberi, la musica: i tamburi e i canti rituali; c’erano le zone semidesertiche del Messico e la raccolta del peyote e la superficie liscia e millenaria di una roccia e una guida che parlava uno spagnolo semplice e arcaico e il sacco di iuta con dentro lo spirito del peyote e la luna che era l’unico passaggio per vedere cosa ci fosse al di là del manto notturno, come se tutto il mondo fosse rinchiuso nell’oscurità e passando per il buco lunare si potesse accedere ad un altro livello dell’universo, dove tutto era luce e la luna un buco nero che portava al nostro mondo. E gli indios raccoglievano piccole cappelle di fungo da consegnare allo sciamano, che le avrebbe triturate e mischiate con la polvere di alcuni fiori, anche loro pestati, in un antico recipiente di pietra. Poi lo sciamano mi avrebbe fatto fumare e io mi sarei disteso su una stoffa rovinata e consumata e sarei entrato con lui nel mondo dei sogni e mi avrebbe insegnato come muovermi e passare da un luogo all’altro, avrei imparato a volare.

Lei dormiva molte notti nel mio letto ed era difficile da descrivere la gioia di averla vicina, di poterla abbracciare, di sentire il suo respiro. Al mattino la baciavo sul collo o la stringevo ancora di più, forse per la paura che tutto questo fosse solo un sogno o un gioco della mente. Quando tornava dal bagno, aveva ancora i capelli leggermente bagnati e ad ogni suo movimento l’aria della stanza si riempiva di leggere fragranze, sapeva di qualcosa di buono e semplice, allora l’abbracciavo di nuovo, sentivo il suo cuore battere, il sole di una splendida giornata, la quiete dei colori, lei doveva andare al lavoro, io avevo un giorno di libertà.

Ci saremmo disciolti insieme, un domani, nella pallida luce della luna, tra le foreste equatoriali, a seminare stelle su cieli d’ebano. Volando oltre le file degli alberi, inseguendo una voce, un canto, gli echi di una millenaria magia.

sabato 24 marzo 2012

industrial #4

Tenevo in mano uno dei raccoglitori con dentro i fogli con i disegni delle macchine. Provai una pillola verde e dopo alcuni minuti quei disegni presero vita all’interno della mia mente, che divenne una sala buia e uno schermo sul quale vennero proiettate delle immagini. La spiegazione non fu parlata, ma direttamente trasmessa al mio cervello attraverso una serie di immagini il cui susseguirsi non era né razionale, né temporale. Semplicemente le immagini prendevano vita ed esistevano. 
Le macchine usavano l’energia sessuale degli uomini per funzionare. Durante la prima rivoluzione industriale l’uomo era diventato schiavo della macchina e parte del suo funzionamento. L’uomo era sottomesso ai ritmi della macchina, la sua vita dipendeva dai questi ritmi. Ciò significava controllo. E punizione, ogni volta che l’uomo disubbidiva alla macchina. La società si era evoluta e le macchine anche. Non c’era più bisogno di gas, di petrolio, di combustibili. Le macchine producevano grazie all’energia sessuale dell’uomo. 
Gli operai venivano collegati alle macchine ed esse succhiavano la loro forza, il loro fluido vitale. Era un’esperienza piacevole e dolorosa allo stesso tempo e si basava sui principi del sadomasochismo. Gli operai vivevano nella fabbrica per un periodo di sei mesi, poi venivano sostituiti da nuovi. La loro vita scorreva in maniera normale, solo che la sessualità non era più una forma di svago, di divertimento o di amore. Era diventata un lavoro. La pornografia veniva usata insieme all’assunzione della pillola bianca, per trasformare il corpo in un ricevitore di stimoli sessuali. Ogni impulso esterno era capace di provocare un orgasmo, qualsiasi esso fosse. Le immagini pornografiche venivano proiettate su uno schermo, gli operai seduti sulle poltrone, sperimentavano nuove forme di piacere. Scienziati prendevano appunti e riempivano schedari. La produzione andava sempre migliorata. 

Seduto sul divano, sfogliavo le pagine. Faceva freddo e misi altri pezzi di legno dentro la stufa. Fuori pioveva e il rumore dell’acqua era dolce. Pensai a mia moglie, a quando ci addormentavamo abbracciati sentendo la pioggia. Il cazzo mi venne duro. 

venerdì 16 marzo 2012

Mustafa



Mustafa stava seduto ad un tavolino del sancalisto e beveva vino bianco, cercando di vendere qualche braccialetto africano a chi aveva vicino. La maggior parte delle persone gli diceva di no, io mi ero seduto ad un tavolino accanto a lui, avevo preso un vodka tonic e mi ero accesso un wilde aroma. Mustafa mi aveva chiesto se volevo un braccialetto, gli avevo detto di no. Poi non ho capito per quale motivo ha iniziato ad alzare la voce e a prendersela con un peruviano seduto poco lontano da noi, che si stava lavorando una ragazza russa con le cosce di fuori. O forse era il contrario, forse era la ragazza russa che si stava lavorando il peruviano. Mustafa si era abbastanza incazzato, forse perché il peruviano non gli aveva voluto comprare un braccialetto o forse per qualcosa che gli aveva detto. Mustafa si era agitato. Aveva iniziato a dire, ad alta voce, che i negri erano sfortunati, che se nascevi negro era una battaglia continua e insultava il peruviano dicendogli che lui non era né bianco, né nero, semplicemente cacca. Era uscito uno dei baristi del sancalisto e molto tranquillamente aveva detto a Mustafa di abbassare la voce e di farla finita con le sue stronzate negre. Io continuavo a sorseggiare il mio vodka tonic e a fumare, poi io e Mustafa ci siamo messi a parlare. Mi ha detto che si era sposato con una donna italiana, che aveva quarantatre anni, che da diciotto viveva in Italia e che era nato in Senegal.

Poi mi ha detto che alle donne italiane piacevano i negri perché scopavano bene, mi ha detto che sua moglie l’amava perché lui le dava il cazzo, ogni volta che lei voleva. Mi ha detto che gli uomini italiani non sanno scopare bene e che la maggior parte di loro sono froci. Con i volti lisci e i vestiti firmati. Ho sorriso. Allora gli ho detto, tu sei un oggetto. Tua moglie ti usa solo per scopare. Gli ho detto, allora hai un contratto con tua moglie, un accordo, lei ti dà la casa, i soldi, i vestiti e tu le dai il cazzo, Mustafa non sembrava molto d’accordo, allora, gli ho detto, per te scopare è amare. Lui ha sorriso, mi ha detto, esatto, amare è scopare.

Ho finito il vodka tonic e sono andato dentro a prendere una gran riserva, Mustafa aveva attaccato il secondo bicchiere di vino bianco. Mi ha detto che alle donne piace scopare, solo che sono troppo orgogliose per ammetterlo, mi ha detto che una donna ti ama solo se la scopi come cristo comanda, che i negri scopano bene perché continuano e continuano senza fermarsi. Poi gli ho detto che insegnavo italiano e lui mi ha detto che insegnava tedesco. Gli ho detto che la vita ci dava dei ruoli da interpretare, Mustafa si è agitato un’altra volta, non gli piaceva quella parola, diceva che non significava nulla, diceva che quello che io chiamavo ruolo in realtà si chiamava lavoro, gli ho detto che ogni lavoro è un ruolo che dobbiamo interpretare, il mio quello del professore di italiano, il suo quello del venditore di braccialetti, per lo meno in questo preciso momento, mentre eravamo seduti a bere, forse in un altro tempo, in un altro luogo, i nostri ruoli sarebbero stati differenti, lui mi ha detto che stavo facendo filosofia. Poi si è acceso una sigaretta e io ho dato un sorso alla gran riserva.

Poi mi ha detto che vendendo i braccialetti non si guadagnava un cazzo, che sarebbe stato meglio vendere droga ma che lui non voleva farlo. Gli ho detto che ero d’accordo, che il mercato della droga era sicuramente migliore di quello dei braccialetti. E si facevano più soldi.

Mi ha detto che lui era un fuori classe, che pensava bene, che giocava con i cervelli delle donne bianche. Lo guardavo negli occhi, erano acquosi. Forse aveva bevuto troppo, comunque i neri non reggono bene l’alcol. Mi sono rollato una sigaretta. Lui ha dato un sorso al vino. Non sapevo se avesse ragione e in fondo non me ne importava nulla. In un altro luogo, in un altro tempo avremmo continuato questa discussione. Mi alzai, salutandolo e me ne andai verso casa. La gran riserva era finita.

giovedì 15 marzo 2012

cut up #1

ergastolo... ho detto... ergastolo... (sputo) tu... ergastolo... bocchinara... ti piace... bocchini... ergastolo... (sputo) ho detto... ergastolo... adesso... vado via...


place: santamaria in trastevere
speaker: pazzo che parla ai gradini di una fontana

sabato 10 marzo 2012

industrial #3


La pioggia cadeva giallastra e calda sul mio corpo blu. Ero completamente nudo, tranne per un paio di scarpe che portavo ai piedi per non ferirmi con le schegge di metallo e legno disperse sui pavimenti degli edifici sventrati e dei sentieri che si muovevano tra di essi. Guardavo il cielo violaceo e la pioggia giallastra e il mio corpo blu. Gli alberi avevano venature rossastre, potevo vedere attraverso di essi, la linfa che risaliva e scendeva lungo le radici e le foglie. Gli uccelli erano macchie di colore indistinte e i loro suoni erano amplificati e irriconoscibili. 
Ebbi un’erezione davanti a delle foto pornografiche attaccate nella parte interiore degli sportelli di armadi distrutti, che giacevano sui pavimenti dei piani superiori. La punta del mio cazzo era di un blu ancora più scuro, profondo come l’oceano. Mi masturbai e venni in filamenti purpurei. 
Vagai nei grandi saloni dove risiedevano i resti di macchine sconosciute. Provai a tracciare una mappa mentale tra i disegni che avevo visto e le figure metalliche che occupavano lo spazio davanti e intorno a me. Cercai di spingere dei bottoni. Mossi con le dita blu della mia mano i denti di una ruota. Ebbi una nuova erezione e infilai il mio cazzo duro in un tubo di gomma. Appena la pelle venne in contatto con la plastica morbida, questa iniziò a contrarsi e a stringersi con pulsazioni ritmiche. Dal pavimento si mossero altri tubi di plastica, come serpenti e si annodarono intorno ai miei polsi e alle mie caviglie. Sentii una voce armoniosa sussurrare nella mia mente. Venni dentro al tubo, urlando. 
Seduto su un pavimento con i disegni delle macchine sparsi davanti. Cercavo composizioni, somiglianze, intuizioni. 
Mi domandavo come funzionassero le macchine, con quale energia potevano essere azionate. C’erano parti elettroniche, mi sembrava di riconoscerle. Ma ormai, all’interno della Fabbrica, non esistevano più forme di produzione di energia elettrica. Sembrava che le macchine iniziassero a muoversi di loro propria iniziativa, come dotate di una volontà. 
Le pillole gialle erano quasi finite e andai nel magazzino dei farmaci a prenderne un altro flacone. 

Steso sul letto di cartone sentivo di nuovo la pioggia cadere. Danzava il rumore dell’acqua con il silenzio. Una danza lenta, un corteggiamento rituale.
Faceva caldo in questo mondo. E non sapevo quando o come sarei potuto tornare indietro.

martedì 6 marzo 2012

Pangea

Alcuni cani si attaccavano alle gambe di uomini e donne senza farsi troppi problemi. Poi iniziavano a fottere quelle gambe. O meglio, mimavano l’atto del fottere. Il bacino che faceva su e giù. La lingua di fuori. Lo sguardo ebete. Questo metteva paura e faceva riflettere. L’ebetismo e la stupidità del loro sguardo. Era un atto che andava contro la loro volontà. Era un movimento che erano costretti a fare. Per gli uomini non era molto diverso. Erano poche le persone consapevoli dell’energia sessuale, del modo di usarla e di quello di controllarla.

E mentre mastichi i tuoi funghi carichi di psilocibina, seduto in bosco, in attesa che le prospettive cambino, i colori si facciano più brillanti e il tuo corpo si dissolva in luminosità violacee, cerchi di porre fine ai tuoi pensieri.

Perché è il pensiero la malattia. E la ragione. E le parole sono il virus. Ed è solo negli spazi vuoti della mente che il diamante della realtà può risplendere. In tutte le sue infinite sfaccettature.

L’istinto di un cane e quello di un essere umano non sono tanto diversi.

Attaccato al tronco di un albero imiti l’antico rituale del fottere. E’ il modo in cui ci hanno fregato per millenni. La riproduzione è la condanna più atroce.

Svuoti la mente e attendi.

Lo stomaco assimila la sostanza.

La chimica corporea, l’elettricità danzante, la profondità di uno sguardo è simile a quella di un intero universo.

Respiri, lenti e ritmici.

Le squame che ti crescono sulla pelle fanno di te un essere primordiale. Antiche percezioni ormai dimenticate. Le esplosioni di luce dell’alba, quelle perlacee dei fulmini, l’estasi del fuoco.

Danzavi nudo tra piante gigantesche, sotto l’incanto lunare e lentamente ti trasformavi.

C’erano i sogni e i voli e le antiche divinità.

E ancora l’incanto lunare.

E il vuoto stellato.

Adesso.

Dentro di te.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...