giovedì 31 marzo 2016

le alte torri #39



La febbre rossa portava con sé alterazioni e nuove percezioni, un senso di pesantezza del corpo, ero steso sul letto, sotto le lenzuola, un calore innaturale, fatto di luce bianca, come se nel sangue scorresse metallo liquido, eiacualzioni notturne come esplosioni termiche, il sudore bagnava il letto, sembrava di trovarsi in una foresta tropicale, i passaggi erano pericolosi, i nemici erano la paranoia e l’ipnosi, nella mente si ripetevano formule, nel teatro psichico arrivavano strani e ambigui personaggi, volti grotteschi e voci irritanti, le battute dei dialoghi erano cariche di odio e insoddisfazione, domande e risposte giravano nel cerchio infuocato di un domatore di bestie, colpi di frusta sul pavimento, suono d’argento di una piccola campana, il buio nella stanza e i cani che sbavavano, per strada potevo guardare le cose con occhi diversi, senza il bisogno di sostanze, la febbre rossa portava con sé una nuova consapevolezza, camminavo più lentamente - pensai di avere bisogno di un bastone, su cui attaccare i miei amuleti, piume di uccello, conchiglie, foglie, avrei dovuto imparare come usarlo, sbattendolo per terra si sarebbero aperti i varchi e sarei potuto passare da una mondo ad un altro senza difficoltà, bisognava sconfiggere i propri demoni, i nemici interiori, era una battaglia continua, non sarebbe mai terminata, la paura doveva scomparire ma il nemico poteva essere sempre in agguato, negli angoli oscuri, negli impulsi sessuali, non volevo più sprecare tempo, energia, fluido vitale seguendo scie di odori femminili come facevano i cani, ne avevo abbastanza, le voci continuavano i loro dialoghi, incomprensibili, deliranti, inutili, un vortice di parole che arrivava confuso e inarrestabile, mi soffocava, mi portava in quel luogo buio, fatto di pareti di metallo, i colpi sordi delle nocche, le risate stridule, il pavimento di alabastro, i corpi candidi di donne sconosciute, l’immagine di un palazzo nel calore bianco dell’estate, un giorno dell’infanzia, sdraiato sotto un albero a guardare il cielo tra le foglie, è stata la prima volta che ho scritto un mio pensiero su un foglio di carta, una porta si apriva, come per incanto, ero solo un bambino ed è così che le parole mi hanno rapito, senza che nessuno sia mai più venuto a cercarmi.

mercoledì 30 marzo 2016

homesick #36

A casa ci si stava anche bene, dopo tutto, con i ragazzi, a bere e suonare, fumare hashish o marijuana, a seconda dell’occasione, veniva anche Maria, qualche volta, a cenare e a dormire con me, poi la notte rimanevamo abbracciati sotto le lenzuola oppure ognuno dal suo lato, era un momento di intimità che non volevo diventasse un’abitudine, mica ci riuscivo ad adattarmi alle regole, a come ti dicevano che si doveva vivere, una parte di me avrebbe sempre e comunque cercato di distruggere tutto quello che voleva avvicinarsi allo stabilito, al già scritto, al deciso. Passavo parecchie notti a suonare la chitarra con i ragazzi ma loro erano più bravi di me e allora ogni tanto mi limitavo ad ascoltarli e la cosa andava bene, era piacevole e mi trascinava in luoghi magici, dentro di me, steso sul letto, a sentirli, in bilico sulle note, si aprivano scenari mentali e arrivavano fulgidi ricordi, strisciando lungo le lame di luce che filtravano da sotto quelle porte chiuse, c’erano anche le immagini dorate dei miei vent’anni, delle scopate di quel tempo, giusto le prime, che mi avevano dato la sensazione di qualcosa di luminoso, che avrei potuto far splendere come fosse amore, poi si è rovinato quel gesto, quell’atto è diventato un bisogno, poi mi sono spinto nei miei luoghi oscuri e non ce l’ho fatta più a tornare indietro e mi sono perso e ho vagato, in un corpo altro, nei suoi desideri, sempre più profondi, indescrivibili e famelici. Di quelle mattine in cui scopavo su un tappeto non era rimasto più nulla, neanche di quella ragazza che mi aveva fatto intravedere una possibilità, tra la polvere che danzava nell’aria e i suoi occhi sempre più grandi, dopo anni passati insieme ci siamo ritrovati in un letto, una notte dopo l’altra, senza desiderio, senza voglia, estranei eppure vicini, alla fine si è presa un altro, ha fatto un figlio e neanche un saluto e allora un bel po’ di romanticismo me lo sono tolto dalle palle, tante belle chiacchiere, tante rotture di coglioni, le paure, i silenzi, non c’avevo mica voglia di ritrovarmele tra le mani queste cose, magari dei capelli da accarezzare si, sdraiati da qualche parte, ma non c’avevo più voglia di stare a perdere tempo dietro alle donne, passavano, venivano, sorridevano, che ognuno seguisse la sua strada, c’avevo perso l’innocenza dentro quelle cosce e adesso anche l’interesse, sarebbe tornata la voglia? Mica lo sapevo e neanche mi preoccupavo. Alcune sere mi mettevo a cucinare, un po’ di pensieri del lavoro che frullavano in testa, degli echi, qualche discorso che sentivo ancora ronzare, poi se ne andavano, lasciandomi in pace. Qualcuno, nei corridoi, non mi salutava più, meglio così, pensavo, meno fiato sprecato, i bagliori di luce sui vetri, immagini doppie e riflessi, bastava poco a farmi felice, seduto ad occhi chiusi dentro al calore bianco dell’ora di pranzo, era ancora inverno, gli alberi spogli, i miei sentimenti chiusi in gemme verdi, pronti a sbocciare.


martedì 29 marzo 2016

homesick #35

In un modo o nell’altro bisognava sempre aspettare, le cose si muovevano con una lentezza snervante e ormai non ci facevo neanche più caso alle chiacchiere e ai volti che incontravo nei corridoi. Tiravo avanti come meglio potevo. I nuovi locali dell’ufficio sembravano più piacevoli, con le pareti arancioni che ti davano la sensazione di un luogo caldo e accogliente ma quando ci ero entrato con le altre donne che lavoravano con me, come al solito, l’impressione era stata diversa, con le loro risate compulsive e i discorsi inutili a rovinare tutto. A volte le parole che producevano mi arrivavano come un rumore indistinto, un suono sgradevole, allora me ne andavo in classe, chiudevo la porta, ascoltavo della musica, loro se ne stavano in un’altra stanza a riempirsi la bocca di cibo e stronzate, mi sembrava come di essere tornato a scuola e la cosa non mi piaceva manco per il cazzo. Volevo la mia serenità e passare il mio tempo al lavoro tranquillamente. ‘Sta storia del gruppo si era rivelata l’ennesima presa per il culo, sono sempre scappato da questo tipo di situazioni, tirano fuori il peggio dalle persone. A loro piaceva perché così potevano parlare e stavano sicure che qualche fesso le avrebbe ascoltate, infatti dopo avergli fatto capire che non c’avevo più interesse a sentire le loro cantilene hanno iniziato a sbrodolarle su quegli altri pochi coglioni che gli giravano intorno e  così iniziava di nuovo la giostra: i sorrisi, le strizzate d’occhio, i cambi di pettinatura. Mica ci si riusciva a sfuggire a ‘sta baracca, comunque io manco le guardavo più e già era tanto se le salutavo, prima o poi se ne sarebbero fatte una ragione, almeno così pensavo. Mi era pure tornata la febbre e la notte era passata in maniera delirante, sentivo il mio corpo pesante, duro, come se la massa muscolare si fosse raddoppiata. Mi giravo e sudavo sotto le lenzuola e tutta una serie di ansie e paranoie arrivavano a ondate e non me ne riuscivo a liberare, la mente era in trappola, sapevo bene di chi erano quelle voci che mi mulinavano nel cervello, erano le loro voci e la febbre le aveva moltiplicate in una litania senza fine. I brividi mi risalivano lungo la schiena e non erano piacevoli come le altre volte, volevo che passassero, volevo dormire e sentire la mente libera, niente da fare, all’alba ho preso una pasticca di tachipirina, mi sono rimesso al letto e ho atteso e come ombre sul finire della notte quelle voci, magicamente, sono scomparse.


lunedì 28 marzo 2016

dream #20

Io e Maria siamo davanti ad un cinema, compro due biglietti e ci spostiamo nel foyer, lei si allontana, ci sono già altre persone, parlano e aspettano di entrare nella sala, c’è un uomo che strappa i biglietti, gli do i miei e lui dice che non vanno bene, che con quelli devo entrare da un’altra parte, così me li restituisce e poi poi fa un gesto veloce con le mani e mi lascia una specie di timbro sui pantaloni, una scritta bianca, mi arrabbio, vado in cerca del responsabile del cinema per dirgli quanto è accaduto, - Arrivo ad una parete, attraversata da una lunga finestra orizzontale, dietro vedo alcune persone che stanno lavorando, sedute a delle scrivanie, al telefono o davanti ad un computer, faccio dei gesti per farmi notare, una delle persone si accorge di me, gli dico che voglio parlare con il responsabile, lui sembra intendermi anche se c’è un vetro che ci divide, poi abbassa lo sguardo – Da una porta esce un uomo, capisco istintivamente che è il responsabile, gli racconto quello che mi è successo, lui dice che ho ragione e mi chiede scusa, poi aggiunge che farà licenziare la persona che strappa i biglietti, poi cancella la scritta che avevo sui pantaloni, fa un gesto con la mano e le parole scompaiono come gesso su una lavagna, in una piccola nuvola di polvere bianca – Torno nel foyer e incontro Maria, ha due biglietti in mano, le dico che li avevo già comprati io e che non ci eravamo capiti, ci spostiamo verso l’entrata della sala, lei intanto dà i biglietti ad una persona dietro un bancone curvo e quella le restituisce i soldi che aveva pagato, poi entriamo nella sala senza che nessuno prenda i mei biglietti, è molto grande, con una volta a cupola, le pareti sono tappezzate di damasco rosso, scuro, cerchiamo i nostri posti, ci sediamo, le luci si spengono.

giovedì 24 marzo 2016

freewheelin' #29



uomini che parlano in arabo, seduti, calmi, slavi che bevono vino scadente da un boccione di vetro da cinque litri, gli occhi liquidi, qualcuno si sdraia su una panchina, oblio alcolico, due donne sordomute comunicano con il loro linguaggio di gesti, si agitano, volti contratti in machere grottesche -  le erezioni mattutine, il risveglio dai sogni, la sua pelle ancora fra le dita, una sensazione indelebile, le cicatrici di luce nel cielo, le nuvole livide, le persone che camminano, seguendo sempre gli stessi percorsi, direzioni che nessuno sembra avere il coraggio di cambiare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, i loro occhi vuoti, spenti, la stanchezza dei gesti e del loro ripetersi, questa città non vuole cambiare, è tutta la vita che la attraverso, ritornando ogni volta al punto di partenza, imparando a perdere: amici, occasioni, possibilità – le zingare nei loro vestiti colorati, i ventri tondi delle donne, strane forme da osservare, aumentano le voci, diverse, straniere, lontane, i rumori del tram risucchiano le parole, le trasformano in suoni ibridi, di aria e metallo, il silenzio in cui mi sono rinchiuso, per l’ennesima volta, le sue dita fra i capelli, bisogna dare più spazio agli imprevisti, a tutto quello che non abbiamo ancora deciso, minime variazioni su cui improvvisare – tony allen dietro la batteria, gli occhiali scuri, lui controlla il tempo con le sue bacchette magiche, lo divide, lo aumenta, lo diminuisce, le pulsazioni cardiache del basso, i battiti di una lenta scopata, gli orgasmi acuti e dirompenti della tromba, il piano che gocciola note e sudore, un bicchiere di birra in mano, ondeggio, tranquillo, mariagrazia e barbara che oscillano, poco distanti, come sospese in una bolla d’acqua, le guardo, vorrei dirgli quanto è stato doloroso e necessario allontanarmi, vorrei affondare il volto nei loro capelli e respirarne l’odore, le vorrei abbracciare dopo mesi in cui non gli ho rivolto uno sguardo, una parola, un saluto – le luci rosse che tentano di fuggire dai muri, le creazioni delle ombre, gli occhi chiusi e gli spazi mentali che la musica disegna, un bicchiere di gin tonic, una sigaretta di tabacco rollata con mani tremanti, i vostri occhi, gli addii, le melodie sussurate da uomini perduti, ti accarezzavo le caviglie mentre bevevamo retsina su una grande panca quadrata di legno, ho dovuto aspettare così tanto per confessarti i miei sentimenti, scrivendoti quello che provavo, perché la voce, la mia voce, finisce sempre per tradirmi, con le lacrime e le emozioni che la fanno tremare, con le parole che si fermano nella gola e lì rimangono incastrate, luoghi e strade in cui mi sono ritrovato, nelle città di sogno, nelle città di veglia, mentre le differenze diminuivano sempre di più, visi e labbra scomparsi, ormai anche dai ricordi, le immagini di quello che si nasconde al di là del mare, viaggi e fughe, le tue cosce aperte, gli occhi socchiusi, una stanza di albergo ad amsterdam, il sapore del tuo corpo, le ultime illusioni che cadono sul pavimento, il cazzo duro prima di sparire nel vuoto.

mercoledì 23 marzo 2016

homesick #34

I portoni delle scuole li continuavano a vomitare fuori i ragazzi, nelle strade e nel sole e loro ridevano, per la giovinezza, per l’assenza di prospettiva, ridevano, ‘ste piccole teppe, che mancava poco tempo a Natale e già si divertivano a far scoppiare i botti, quando gli passavi vicino e loro te li tiravano addosso, facendoti saltare e bestemmiare e un paio di questi stronzetti avevano dato fuoco a un pezzo di carta e lo avevano buttato sul cofano di una macchina, vicino al parabrezza e la guaina di plastica che ci stava sotto aveva iniziato a bruciare e allora gli ho urlato, venite qua e loro sono scappati e io mi sono buttato all’inseguimento, ma giusto per scherzare, perché se c’è qualcuno che fa il teppista, un altro deve fare quello che lo insegue, sennò non c’è azione, non c’è drammaticità e allora uno si è nascosto dentro un portone e l’altro l’ho perso di vista, povero stronzo, me l’avevano fatta, però ci avevano creduto che li volessi prendere, era solo una bugia come un’altra, come le ragazzette che gli giravano intorno, in cerca dei primi baci, delle prime strette di culo, ridevano nella luce e nelle ombre, rincorrendosi, mica lo sapevano quello che li aspettava, tutti quanti, le bocche in cui sarebbero finiti, per essere masticati e sputati, sognatele pure le vostre storie d’amore, le vostre donne, le mogli e i figli, i vostri mariti e i vostri sposi, sognatevela la vostra casa, la vostra prigione, come arrivare a fine mese, troppo lontano, come arrivare alla fine della giornata senza essere impazziti, i vostri gruppi, le vostre parole, continuavo a camminare da solo, come sempre, qualcosa diventava sempre più concreta, reale, nitida, l’asfalto e gli stronzi per strada, quelli che ti passavano accanto, quelli che dovevi essere tu ad evitare per non sporcarti le scarpe di merda.


venerdì 18 marzo 2016

freewheelin' #28



due uomini parlano in turco, le immagini degli edifici a tre, quattro piani che scorrono fuori dai finestrini del tram, il corpo sventrato di un palazzo, le sue ossa di ferro, gli alberi spogli, spettrali, le linee geometriche di una piramide bianca, un uomo seduto che si tocca di continuo i capelli, appiattendoseli sulla nuca, per nascondere la propria calvizie, l’illusione della stasi e del movimento – le voci sempre troppo alte, inutili, un vecchio che legge il giornale, assorto, stanco delle chiacchiere, indifferente a tutto quello che si muove e si ferma dietro di lui, il cigolio metallico delle giunture dei vagoni, le ragazze sedute per terra, le gambe incrociate, i viaggi fino al mare, quando ero un ragazzo anche io, le bestemmie e le risate, gli occhi di mariagrazia mentre stiamo bevendo una birra e parliamo, dopo tanto, tanto tempo, un contatto intenso, profondo – un ragazzo che si alza dal suo posto e lascia sedere una signora anziana, lei ha delle buste che si mette tra i piedi, le vene bluastre in evidenza sulle mani ormai invecchiate, gli anelli, gli occhi chiari rinchiusi in una maschera devastata dal tempo, la caviglia nuda di una ragazza, accanto a me, una fugace apparizione della sua pelle bianca, le unghie finte delle dita, laccate di rosso, mentre le muove facendole scivolare sul nulla – le porte automatiche si aprono/si chiudono, nessuno entra, nessuno esce, piccoli sogni vuoti, idee di viaggi che non si realizzeranno mai, le delusioni future, atroci scherzi che distruggeranno i tuoi anni - le lacrime come amiche - tornare indietro, stazione dopo stazione, i pomeriggi a casa di alessio, un pianoforte muto, una sera mentre aspettavamo il treno, giorgia seduta sulle mie ginocchia, il giorno che io e marco l’abbiamo accompagnata a prendere un pullman, il giorno che è uscita per sempre dalla mia vita – le striature di luce nel cielo, travestite da nubi, tatuaggi sulle dita di un uomo appoggiato ad una delle porte automatiche, adesso chiusa, il suo sguardo che accoglie le immagini in movimento, all’esterno, pensando altrove, al suo paese, a tutto ciò che è stato lasciato indietro, le orme cancellate sul bagnasciuga, gli ultimi respiri dei tramonti d’inverno – le file dei cipressi, le gru e i bassi edifici industriali, le dita di una ragazza asiatica, quante volte ho sognato le tue mani, nelle notti adolescenti, quando ci siamo abbracciati ad un concerto, quando ti sei sdraiata accanto a me, in una cuccetta, in alto, in un viaggio in treno verso la sicilia, la tua presenza così calda, reale, le dita intrecciate, le mie mani che ti accarezzavano il viso, i baci leggeri che ti lasciavo sulle labbra – un barbone che sale e ripete, qui c’è un barbone, le buste piene dei resti della sua vita, stella polare, castel fusano, il palazzetto dello sport, come un enorme sombrero messicano lasciato sul cemento, le gare di judo di valerio e noi che lo andavamo a guardare, a tifare per lui, il giorno che ho partecipato ad un concorso, lì dentro, un’enorme gigantesca farsa e poi sono andato a prendere il fumo in un piccola capanna di legno sulla spiaggia e il tipo che me l’ha portato aveva un problema ad un orecchio e mentre l’aspettavo mi sono sdraiato sulla sabbia e ho letto un libro e il giorno dopo sarei dovuto partire per la sardegna – i fiori viola splendenti nel verde delle foglie, il mare in lontananza, la linea dell’orizzonte, la quiete dei respiri, il silenzio per raggiungerla.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...