lunedì 29 settembre 2014

San Pedro #4


Volammo ancora, attraversando la notte, gli occhi del vecchio erano luminosi, sembravano fari accesi, i raggi di luce che proiettava sulle pietre facevano nascere ombre, antichi esseri di un popolo perduto che fuggivano veloci, di lato, allungandosi e scomparendo, questo è il popolo delle ombre – disse il vecchio – la loro lingua è quella degli opposti, della lotta tra la luce e il buio, erano migliaia, li vedevo uscire fuori dalle pietre, parlavano attraverso il movimento, la fuga, una breve e veloce esistenza ripetuta in molteplici e oscure figure. Arrivammo in una valle ancora avvolta dalle tenebre, la temperatura era molto bassa, avevo freddo, il vecchio batté più forte sul tamburo per far salire il mio calore corporeo, ci posammo sul suolo e le forme dei vulcani iniziarono a mostrarsi, l’alba stava arrivando e fumi densi si alzavano da buchi nella terra, c’era odore di zolfo e il suono di una lingua misteriosa simile a quello dell’acqua che sta bollendo, la luce avanzava, mostrando i pendii delle montagne che avevamo intorno, piante dalle sfumature giallastre e ancora rocce sulfuree e i fumi che salivano, avvicinati – disse il vecchio, mi feci più vicino ad una di quelle pozze e vidi l’acqua sotto forma di bolle d’aria, salire sempre più intensamente, poi mi allontanavo e l’acqua sembrava calmarsi, iniziammo una strana danza, simile ad un arcaico dialogo tra l’uomo e la natura, quegli spiriti erano imprevedibili, solitari, si disperdevano nell’aria, cambiavano la loro sostanza fisica, nascevano dall’acqua che incontrava il calore della terra per poi diventare aria, non volevano essere disturbati, mi sedetti accanto ad uno dei buchi fumanti più grandi e iniziai a diventare anche io vapore, fino a svanire a oriente, dietro i vulcani, nel cielo ormai chiaro.

martedì 23 settembre 2014

Le vent se lève!... il faut tenter de vivre


alcune volte non c’era nulla da dire e sarebbe stato meglio rimanere in silenzio, altre volte ci prendevamo per mano e camminavamo su una spiaggia solitaria o in un parco o tra le strade affollate di città sconosciute, c’era la sensazione nitida e precisa di una forma, mentre l’abbracciavo, una forma mentale che il suo corpo mi trasmetteva, quella forma era una parte di me e mi mancava, avevamo lo stesso cuore e modi diversi per esprimere i nostri sentimenti e per chiederci l’amore e per quanto tentassi di renderla felice mancava sempre qualcosa, qualcosa di essenziale, di semplice e complesso, di lucente e oscuro e la vedevo andare via triste e silenziosa e in quei momenti sentivo dentro il mio cuore un sentimento così grande, la voglia di seguirla e abbracciarla e tenerla stretta e non lasciarla più e altri giorni e altre notti e la sensazione di qualcosa che non volevo e poi quella di non poterla lasciare e i momenti di quiete e le delusioni e i sogni che ho infranto, la crudeltà dei miei gesti, delle mie parole, degli sguardi e tentavo, tentavo di farla felice e lei mi trascinava giù e cadevo insieme a lei e nelle lacrime, nelle strette del cuore, trovavo ancora quell’unione e quel sentimento tornava ad essere unico ed impetuoso e piangevamo, abbracciati e il suo corpo era di nuovo quella forma nella mia mente e poi mi allontanavo ancora, per tornare a cercarla, l’avevo fatta prigioniera ed era una gabbia che rinchiudeva anche me, a volte cerchiamo di amarci senza lasciarci ferite, a volte - il suo sguardo in una chiesa, uno degli sguardi più belli e profondi e lucenti che abbia mai visto e non c’era nessun dio ad aspettarmi, nessuna unione, nessuna cerimonia, cercavamo una via di uscita e un modo per non perderci, non ho il coraggio di dirti addio, non l’ho mai avuto.

domenica 14 settembre 2014

homesick #14

Sentivo i colpi d’argento di una campana, venivano dalla chiesa che si trovava davanti alla piazzetta in cui i ragazzi arabi continuavano a vendere erba o fumo. Sentivo i colpi d’argento di una campana e il tempo stava passando e io ero ancora stordito dalle canne che mi imprigionavano in solitari giochi sessuali e creavano dimensioni mentali e fisiche da cui, poi, non riuscivo più a fuggire. Erano luoghi fatti di fantasie proibite, le immagini pornografiche sul computer davano forma e sostanza a queste fantasie, le immagini viste sullo schermo si imprimevano nella mia mente, lasciandomi poi con un continuo bisogno da soddisfare. La mente creava la sua gabbia poi buttava via la chiave e potevi rimanere intrappolato per sempre nelle tue ossessioni. L’erba gettava il mio corpo in uno stato di esaltazione sensuale, il corpo si abituava subito agli stimoli che riceveva e l’abitudine diventava dipendenza, il passo successivo era la ricerca continua di qualcosa che soddisfacesse quel desiderio, le istruzioni per entrare mi erano chiare, quelle per uscirne più difficili da trovare. 

Lentamente, nel corso degli anni, avevo provato a liberarmi da tutto quello che creasse dentro me stesso un senso di bisogno, fisico o meno. Fossero uomini, donne, amici, oggetti, sostanze, cibi o alcolici. Ogni cosa che finivo per ricercare per stare meglio era dannosa e da essa dovevo allontanarmi. Un passo dopo l’altro. Un pensiero alla volta. 

Nei momenti in cui ero completamente vuoto mi sentivo libero, respiravo e seguivo il flusso della vita. Lei sapeva dove condurmi,  mi  passava attraverso, non la trattenevo e i problemi scomparivano. Ogni volta che un desiderio tornava a turbarmi mi allontanavo da quel flusso e iniziava di nuovo l’inquietudine, il bisogno. Non c’era una soluzione definitiva. Ogni giorno, la vita, richiedeva di trovare un punto di equilibrio, dovevo esserne consapevole, sentire ogni minimo cambiamento dentro me stesso, ogni vibrazione, ogni spostamento di energia interiore, era tutto collegato ed erano così meravigliosi i momenti in cui ogni dettaglio era nel giusto ordine e io tornavo a fluire, sentivo la vita dentro di me, pura e incontaminata e volevo che quella stessa purezza fosse ovunque. 

Da fuori, dal mondo esteriore, dal lavoro, dalla città e dalle persone che mi circondavano arrivavano sempre impulsi negativi da cui dovevo difendermi, sprecando energie e questo stava diventando sfiancante, dovevo trovare un modo o un mondo dove quello che avevo dentro e quello che esisteva fuori di me diventassero la stessa identica cosa. 

Sotto gli effetti della psilocibina avevo provato, in un parco di Amsterdam, con i miei sensi, la mia mente e con tutto me stesso che questo era possibile. Il mio cuore aveva smesso di sanguinare, le ferite si erano rimarginate, quella sostanza era stata la medicina migliore che avessi mai preso.


I colpi d’argento di una campana, i giorni dello stordimento diventano echi lontani, come quelli dell’estasi e della caduta, seduto o sdraiato sul mio letto mi limito a respirare, la libertà ha un sapore così dolce, aria che entra, aria che esce e null’altro da fare, la vita che muore e continua in tutto il suo fluido splendore.


freewheelin' #12

Una colazione sull’erba, come in un quadro di Manet sotto gli effetti di sostanze psichedeliche, un canale quieto davanti ai miei occhi, una barca che ci scivola sopra, l’acqua opaca, mangio una spacecake, fumo sativa e mi incammino verso la stazione di Amsterdam, prendo un treno per Harleem e passeggio per la cittadina, trovo un angolo di calma verde e luce rassicurante, mi stendo sotto un salice, il vento tra le foglie, mi addormento nel prisma poliedrico della mia mente, riflessi di arcobaleni appaiono e scompaiono sotto le mie palpebre.

Nella sala Maria versa gocce di codeina in un piccolo bicchiere di plastica bianca, ce lo passiamo, poi le luci si spengono e affondiamo nel caldo abbraccio di poltrone rosse, i tessuti dei tendaggi e quelli delle pareti, li sento sulla punta delle dita, si apre il sipario e Antonin cammina senza parlare sul palco, il teatro del silenzio di Mullholand Drive, metto un braccio intorno alle spalle di Maria, chiudo gli occhi, si creano visioni di uomini sulle rocce di un dimenticato paese del Messico, i corpi torturati sulla pietra, gli antichi sacrifici, una farfalla chiusa in un pugno, gli occhi piramidali dello sciamano, una porta che si apre nel cielo e nella terra, Antonin seduto in una stanza bianca, il diario su cui scrive, la candela accesa, la danza del peyote su cumuli di macerie, il deserto mi stava chiamando, in sogno planavo sulle sue dune, osservavo le rocce, poi mi fermavo su un ramo di un albero nero.

La vita scorreva in filamenti incandescenti.

Il ritmo dei tamburi.

La melodia della voce.


In volo su mondi capovolti.

freewheelin' #81

  Frammenti di una festa in differenti momenti del giorno e della notte, una bambina araba che mi prende per mano e suo padre che riceve inn...